Benvenuti! Questo è il blog dedicato ai racconti yaoi/shonen-ai di Hisoka K. Shindou, ovvero l'alter ego di Aphrodia Raigan, e al cinema queer...

*Disclaimer*:

ATTENZIONE: Questo Blog contiene racconti che trattano relazioni omosessuali, con presenza di scene di sesso più o meno esplicite!
Oltre ai miei racconti yaoi/shonen-ai, troverete recensioni di film a tematica gay, test, immagini tratte da manga e film, e quant'altro passa per la mente della sottoscritta! ^_^

Vi ricordo che il termine 'yaoi' viene usato in Giappone per definire un particolare genere di manga omoerotici scritti da donne per donne. I miei sono racconti che vogliono (ci provano almeno) a distaccarsi dai soliti stereotipi che caratterizzano questo genere nipponico. Uso il termine più che altro per convenzione... ^^'



giovedì 25 gennaio 2007

'Wolves of Kromer'


"Wolves of Kromer" -genere horror queer-


Favola dai toni leggermente horror, in chiave gay, sulla diversità, narrata dalla voce di Boy George! Seth (Lee Williams) e Gabs (James Layton) sono due bellissimi lupi in forma umana che vivono nella foresta di Kromer, ma nel vicino villaggio la presenza dei lupi non è gradita. Gli abitanti, guidati da un prete, sono pronti a scatenare una vera e propria 'caccia ai lupi', in seguito alla morte di un'anziana donna di cui li ritengono responsabili. Non aspettatevi niente di eccezionale da questa pellicola, un b-movie del '98, realizzato a basso costo, che comunque rimane piacevolmente godibile. Seth, un lupo che ha scoperto da poco di essere tale e che non è stato accettato dai suoi genitori per questo se n'è andato di casa e adesso vive nella foresta di Kromer, dove ha conosciuto Gabs.
La pellicola è una metafora sulla diversità, sulla presa di coscienza di ciò che si è, dei dubbi su quello a cui si rinuncia (avere una propria famiglia, dei figli) e sulla persecuzione omofoba. Quando Seth dichiara d'esser orgoglioso di 'essere un lupo' le sue parole in realtà sono una metafora: il ragazzo fa così il suo 'coming out'. Poi... che dire della scena finale sulle note rock di 'Spirit in the sky'??? Un bellissimo 'lupacchiotto' col volto di Lee Williams ( che l'anno successivo reciterà in "Canone inverso" di Ricky Tognazzi nella parte di David, a fianco dell'altrettanto stupendo Hans Matheson!  ) nel ruolo di Seth.
Il film ha vinto nel 1998 Premio Speciale al Miglior Regista Esordiente  al L.A. Outfest e il "QueerHorror Award" nel 2001.



Titoli finali:

Nuovo racconto yaoi! ^_^

Sto scrivendo un nuovo raccontino yaoizzante  Per adesso ho buttato giù solo tre pagine, ma nella mia mente malata e perversa son già molto avanti nella storia... ll problema principale resta il fatto che non so farne una trasposizione letteraria adeguata...  Stavolta i personaggi hanno nomi giapponesi (li amo!*_*), essendo ambientata a Tokyo. Volevo farlo da tanto non mi riusciva facile parlare di qualcosa che conosco solo attraverso manga e anime. Quindi (al solito) son maggiori i dialoghi che tutto il resto... ^^''

[Le uscite (di testa!) della blogghista:  Wow! L'abbigliamento delle 'azzardine' in divisa scolastica! *____*  Vorrei farne indossare una così a Kenji...  ]

AGGIORNAMENTO! [8 Febbraio] Dopo aver cambiato non so più quanti titoli ho deciso per: "Ciò che siamo!" L'idea mi è venuta dal titolo del film "The Sum of Us" (Tutto ciò che siamo) con un giovanissimo  Russell Crowe!

giovedì 18 gennaio 2007

"Il bambino che..."



Son passati due anni, forse qualcosina di più, da quando ho scritto "Il bambino che". E' stato il racconto più lungo che abbia mai scritto (una cinquantina di pag. ^^''). Ci sono molto affezionata, quindi, se mai qualcuno passerà di qui e avrà tempo e 'coraggio' per leggerlo, me lo tratti bene, plz! ^__^  Oltre ad essere qualcosa di 'personale', in quanto ho avuto modo di riflettere su tante cose scrivendolo, ho passato delle nottate in bianco davanti al pc. Due persone l'hanno già letto in versione cartacea e le ringrazio.

Dreaming...

Se fosse un lungometraggio ad interpretare il ruolo di P. vorrei Lee Williams con i capelli un po' lunghi come in "Wolves of Kromer"!



                                                                                                                              Alla mia amica S.

                                                    "Il Bambino che..."

                                                     
                                                        Capitolo primo



Guardò la schiena di Paolo allontanarsi mentre lui rimaneva immobile come un deficente. E ad ogni passo che li separava stringeva di più le chiavi dell’auto nel pugno della mano destra. Quello era il bambino che tanto l’aveva colpito il primo giorno alle scuole elementari. Quello che tutti prendevano in giro perchè assomigliava così tanto ad una femmina con quella frangetta, lunga fin quasi sopra gli occhi, e le lunghe ciglia scure. In un primo momento aveva quasi tratto in inganno anche Andrea con quei lineamenti del viso così delicati. Sembrava davvero una bambina, ma non lo era e in una, ormai storica, mattina l’avrebbe dimostrato a tutti quegli stupidi dei suoi compagni della I B.
Marco, il leader degli stupidi, che lo aveva schernito durante tutta la lezione, se l’era proprio cercata. Al suono della campanella dell’intervallo delle dieci tutti erano corsi in cortile. Il bambino attaccabrighe, continuava imperterrito a chiamarlo “femmina” saltellandogli intorno. Paolo lanciò un’occhiata verso la maestra e vedendo che stava parlando con una delle custodi, non ci pensò due volte e si gettò sul compagno. Gli morse un braccio più forte che poteva. Il ragazzino urlò per il dolore, richiamando così l’attenzione della maestra che si precipitò a vedere cosa stesse succedendo. Trovò Marco in ginocchio per terra che piangeva come una fontana tenendosi il braccio stretto al petto e Paolo che si era calato i pantaloni e gridava: “Scemo, io sono un maschio!”. Tutti risero tranne la maestra che lo mise in punizione dietro la lavagna e ce lo tenne per tutto il resto della mattinata.
‘Il bambino che fa la pipì seduto’ lo chiamavano. I bambini che avevano frequentato l’asilo con lui si ricordavano bene di quel bambino che si ostinava a pisciare sedendosi sulla tazza del cesso, proprio come una bambina. E no che non voleva saperne di farla come gli uomini, come tutti gli uomini normali. Tutti ne parlavano e sua madre, disperata, ne parlò a quella di Andrea quando loro divennero amici e i loro genitori di conseguenza. Il caso volle che si trasferissero proprio nella stessa via in cui viveva la famiglia di Paolo. Divennero presto amici inseparabili. Tuttavia, neppure Andrea riuscì a persuaderlo a far pipì in piedi!

Andrea salì in macchina, immerso nei suoi ricordi. Passò dall’infanzia alla prima adolescenza. Le cose hanno un inizio e una fine. Tutto è destinato a passare, inesorabile, a scorrerci attraverso e andar via. Andrea questo lo sapeva, ma
Come erano giunti a quel fatale punto di non ritorno? Com’era iniziato tutto? Come?
Era stato un gioco, all’inizio. Tutto era iniziato per gioco, così lui ricordava. E la sua vita aveva iniziato a costellarsi di segreti e menzogne. Di compromessi e paure. E tutto per colpa di una ragazza...

Era la metà di giugno. La scuola era finita già da qualche giorno e si attendeva l’affissione dei tabelloni con i promossi e i bocciati. Quella mattina avrebbero saputo il fatidico verdetto. Andrea arrivò correndo alla fermata dell’autobus, dove ad aspettarlo c’era P. tutta presa dalla lettura di un libro. Sentendolo arrivare la ragazzina alzò lo sguardo verso l’amico.








“In ritardo anche oggi, eh?”
“Che ci vuoi fare, ce l’ho nel sangue. Se non esco di casa all’ultimo minuto non sono io!”
“Già, lo so bene” rise lei. Indossava una minigonna che di tanto in tanto il vento faceva svolazzare mostrando le sue mutandine bianche. Lui non poteva evitare di guardargliele. Gli sembrava una visione così pura e innocente. E normale. Ed era normale che lui ne fosse attratto. Perfettamente normale.
 L’arrivo dell’autobus scacciò via quei pensieri un po’ sporchi sull’amichetta.
“Scendi tu a scuola per vedere i risultati. Io ti aspetto alla stazione. Fa’ presto per favore.”
“Se io non fossi stato promosso...”
“Andrea, muoviti, scendi! E ricordati di guardare anche per Paolo!”
Corse fino alla scuola. Esitò un momento prima di entrare nell’atrio dove sarebbero stati i tabelloni con il loro verdetto ad attenderlo. La professoressa Vannini vedendolo gli andò incontro.
“Cosa fai non entri? Di cosa ti preoccupi?” gli domandò sorridendogli. Aveva uno strano sguardo, intriso di malizia. Gli dette fastidio, eppure lui aveva aveva aveva
“Entra, scemo,” lo rassicurò “ io sono una donna di parola.”
Quell’ asserzione lo fece vergognare a morte. Era importante venire promosso in terza media. Era importante per i suoi genitori. Era importante per non separarsi dai suoi compagni di classe. Era importante per non sentirsi inferiore agli altri. Era importante.
Dopo esser stato in coma per tre mesi, un anno e mezzo prima, non era più riuscito a recuperare con il programma scolastico delle varie materie. Qualcosa era cambiato in lui, nel suo apprendimento, faceva molta più fatica a memorizzare le cose che studiava. Fingeva che tutto andasse bene, ma non era così. I professori se ne erano accorti ed avevano consigliato a sua madre di affiancargli un insegnante di sostegno, ma lui si era rifiutato. Era spaventato dall’idea che potessero ritenerlo un ritardato mentale. La Vannini gli aveva dato ripetizioni di italiano e storia, ma con scarsi risultati. Lui, miseramente sconfitto, l’aveva quasi supplicata di aiutarlo. La professoressa era disposta a farlo. Sì, ma a quale prezzo? Si odiava per essersi abbassato ad accettare le avance della sua insegnante di italiano per salvare la faccia e non esser considerato un mentecatto dal resto della classe. Si faceva schifo ancora adesso  ricordandosi che per salvare il suo ego aveva sporcato la sua dignità di uomo!
Chiedersi fino all’esasperazione che ho fatto? che ho fatto? che ho fatto? non lo faceva certo stare meglio. Non si compativa. Non poteva giustificarsi per esser finito nel letto di una sua professoressa per esser promosso in terza. Gli costava un grande sforzo mantenere quel segreto, soprattutto con Paolo. Avrebbe voluto sfogarsi parlandone con qualcuno, invece non poteva, dannazione! Quando erano piccoli si confidavano tutto. Paolo un giorno gli aveva confidato quella cosa. Sì, era vero, ma adesso il suo segreto era troppo più grande, più importante, e coinvolgeva anche un’altra persona. Si trattava di un segreto più adulto.
Aveva trascorso tutto il pomeriggio con P. a Bologna scordandosidi esser sceso al compromesso di scambiare la sua promozione con...! La Vannini era una bella donna, non arrivava ai trent’anni, affascinava un po’ tutto l’universo maschile, tra studenti e insegnanti, della scula media G.P. Avrebbe dovuto ritenersi fortunato, Andrea, invece la cosa non era








 stata per niente piacevole. Che razza di schifosa! avrebbe detto pieno di sdegno qualcuno, un giorno a venire.

Andrea guidò fino a Bologna, senza sapere dove andare. Erano ormai le nove di sera, ma non aveva nessuna voglia di rientrare a casa. Trovò che Bologna di notte fosse davvero meravigliosa, però magari tutte le città di notte lo sembrano. Eppure gli sembrò che la sua Ferrara non fosse tanto bella. Parcheggiò vicino alla stazione centrale. Raggiunse a piedi Piazza XX Settembre  e si soffermò a guardare dei ragazzi che pattinavano sulla pista del ghiaccio. Anche lui e P. avevano pattinato lì una volta per le vacanze di Natale. Era stato cinque anni prima. Se lo ricordava ancora molto bene. Lei era ancora la sua migliore amica. E lui era ancora il solito egoista. Tornare indietro non si poteva e comunque non avrebbe risolto nulla. Non poteva pretendere che lei annullasse per lui il suo vero “io”.
La sua attenzione venne attirata da un padre che rimproverava il figlio. Un padre...

Andrea frequentava la terza media quando suo padre morì per un malore tornando a casa dal lavoro. Si era accasciato sul marciapiedi e non si era più rialzato. Inutile l’arrivo dell’ambulanza. La perdita del genitore aveva sconvolto ancora di più la sua vita. Solo l’amicizia di Paolo l’aveva aiutato ad andare avanti quando tutto sembrava volgere al peggio e non trovava alcuna via d’uscita. Lo sconforto interiore dato dalla solitudine era immenso. Per di più sua madre aveva smesso quasi del tutto di occuparsi di lui. Non gli rivolgeva neanche quasi mai la parola. Si comportava come se lui non esistesse. La  situazione familiare era diventata molto pesante per lui. E pure la sua vita sociale, col resto del mondo, sembrava esser  prossima alla catastrofe.
Era una soleggiata mattina di marzo: il giorno del suo quattordicesimo compleanno. Il professore di matematica l’aveva chiamato alla lavagna. La solita tensione che l’attanagliava rischiando di soffocarlo, e poi
Il pensiero della morte del padre gli aveva impedito di terminare l’equazione alla lavagna. Le lacrime avevano iniziato a scendergli lungo le guance. Con vergogna era rimasto immobile rivolto verso la lavagna. Avrebbe voluto scomparire dentro quel nero. Scomparire, per sempre.
“Non so risolverla...” aveva ammesso con un filo di voce, mentre gli occhi si facevano lucidi.
Il professore, a conoscenza della tragedia che lo aveva colpito recentemente, aveva chiuso un occhio e gli aveva dato il permesso di uscire per andare al bagno. Si era sciacquato la faccia, ma l’acqua non aveva trascinato via la tristezza. Uscendo, nel corridoio aveva incrociato la Vannini che l’aveva portato in Sala Professori. Intimidito dai modi di fare così determinati della donna non aveva opposto resistenza e l’aveva seguita a testa bassa. Era solo un ragazzino delle medie, dannazione, solo un ragazzino!
“Mi ha detto tua madre che esci con una ragazza”
“E con questo?” aveva replicato lui, cercando di non far trapelare il  timore che provava dal tono della voce. Si sforzava di apparire forte di  carattere, e non doveva mollare, altrimenti sarebbe stata la fine. Brutta vacca! brutta vacca! brutta vacca! si ripeteva dentro di sè come un








 rituale scaccia-paura.
“Non dovresti concentrarti sullo studio? Ti ricordo che quest’anno hai l’esame e davanti alla commissione io non potrò fare molto per te... Come del resto nelle prove scritte...”
“Non le chiedo niente. Se non dovessi passare l’esame vorrà dire che ripeterò l’anno!” sostenne, con fierezza. E le lanciò un’occhiata in tono di sfida. Brutta stronza! brutta stronza! brutta stronza! continuò il suo rituale-infondi-coraggio.
“Tu hai delle difficoltà, perchè non vuoi ammetterlo?! Alle superiori come pensi di fare, eh?!” continuò la professoressa con un’aria alquanto preoccupata.
“Chissà, magari potrei andare a letto con tutte le mie insegnanti!” scherzò il ragazzo tenendo duro. Ce la poteva fare. Poteva sostenere lo sguardo di lei e quel dialogo. Poteva uscirne vincitore. Fanculo, stronza! Fottiti!
“Ti diverti, eh? Quelli che si prendono gioco dei loro professori o degli adulti finiscono molto male, sai? Credi forse si possa ottenere qualsiasi cosa scopandoti i tuoi superiori?!”
“Stavo solo scherzando... “ ammise lui, “Io non credo niente, professoressa, io potrei essere suo figlio! E’ lei che... lasciamo perdere. Ho sbagliato quella volta, ma non voglio farlo di nuovo!”
“Lo dici per quella ragazza che frequenti? E dimmi, con lei, ci fai l’amore?”
“Non la riguarda!” sbottò Andrea. Quella domanda così diretta gli sembrò di una crudeltà incredibile. Non capiva bene, ma c’era qualcosa che non andava. Per la prima volta si rese conto che qualcosa non tornava. C’era qualcosa di storto, ma non capiva cosa fosse. Pensò che fosse lui ad esser storto. Sospettò che fosse la storia con P. ad esser storta. Che stava succedendo? Non capiva. Alla fine si dette per vinto. La Vannini era riuscita di nuovo ad averlo in pugno. L’aveva sconfitto ancora. Lui, d’altronde, era solo un ragazzino. Inoltre, stava vivendo il periodo più strano della vita: l’adolescienza!
Dannazione! Si vide costretto ad arrendersi. Tornò in classe con la testa alquanto confusa.
All’uscita di scuola Paolo lo invitò a passare il pomeriggio a casa sua.
“Sai, Luca mi ha prestato una certa videocassetta...” gli disse strizzandogli l’occhio.
“No, scusa ma non mi va. Non oggi, Paolo. Scusa, ci vediamo domani, ok?”
Paolo non aveva insistito ed era tornato a casa da solo.
Andrea stava  svoltando l’angolo con il viale alberato quando scorse sua madre, a qualche decina di metri, che parlava tutta sorridente con un giovane sulla trentina. Si chiese chi cavolo fosse quel tizio. Non gli sembrava di conoscerlo. Lo infastidiva vederlo parlare così animatamente con sua madre. Rientrò in casa e si mise a studiare, ma la sua mente era altrove. Decise così di andare da P. visto che tanto non riusciva a concentrarsi. Prima le telefonò di modo che fosse lei ad accoglierlo aprendogli la porta. Si stava ingannando, e lo sapeva. Così le cose non andavano bene. Andavano, in qualche modo andavano, ma non bene!
“Vieni, accomodati. Stavo guardando un film in cassetta di là... Vado a spegnere la tv...”
“Ti ho disturbata?”
“Ma no figurati, mi ha fatto piacere!”
Guardava P. restandone affascinato come se ogni volta fosse la prima che la vedeva.








“Mia madre tornerà dopo cena quindi...”
Quindi? Che significato avevano quelle parole? Qualcosa del tipo siamo soli potremmo anche...? La mente straripava di punti interrogativi. La fantasia galoppava e se la rideva dei suoi dubbi. Se la rideva alla grande.
“Anche che cosa?” un po’ preoccupato, aveva chiesto Andrea.
P. , che non aveva letto nel suo pensiero, non capiva cosa stesse dicendo. Gli sembrava che l’amico si sentisse un po’ a disagio. Si guardava intorno, nervosamente. Si rattristò per questo. Gli chiese se andava tutto bene. Andrea annuì col capo. Frugò tra i suoi pensieri e ne scelse uno a caso.
“Forse quest’anno mi bocciano” disse, “ ma ti dirò, non mi frega un cazzo. Sono stufo della scuola, della Vannini e di tutto il resto!”
P. andò a prendere due lattine di birra nel frigo e ne offrì una ad Andrea.
“Non pensarci, bevici sù” gli consigliò lei. “Ci ubriachiamo e poi finiamo a letto insieme, come nei film!” scherzò P.
Ad Andrea lo scherzo non piacque molto. Si fece scuro in volto. Abbassò gli occhi. C’era qualcosa di sbagliato in tutta quella situazione. E lui lo sapeva. Oh, sì che lo sapeva!
“Stavo scherzando, dai, ma dal momento che stiamo insieme...” 
“Stiamo insieme” ripeté Andrea, ma non ne sembrò molto convinto.
“So che un giorno finirà tutto questo e che tu mi odierai. Vorrei che quel momento non arrivasse mai, ma non potrò evitarlo. Non posso certo pretendere di averti per me, non ne ho nessun diritto. Tu un giorno ti stancherai di giocare ai fidanzatini e allora io saprò farmi da parte. O almeno, ci proverò.”
“Non voglio perderti, te lo giuro” dichiarò lui. Un giorno si sarebbe quasi sputato in faccia per averlo detto.

Te lo giuro... Maledetti ricordi!
La pista del ghiaccio stava chiudendo e i ragazzi si affrettavano a tornare a casa. Andrea rimase ancora lì, immobile, nella piazza. Avrebbe voluto piangere, sfogarsi, per esser stato sempre un grande egoista. Sapeva di aver perso i suoi migliori amici per il suo egoismo. Pensò a tutti i giuramenti che aveva fatto a P. e come stupidamente era venuto meno alla parola data. Lei sapeva già allora che si sarebbe stancato del gioco, perchè Andrea viveva in una sorta di illusione che si era creato e che in futuro inevitabilmente si sarebbe sgretolata.
Viveva in un mondo tutto suo, come prigioniero in una specie di dormiveglia, e un giorno avrebbe riaperto gli occhi e allora allora allora
Allora tutto gli si sarebbe mostrato per quel che era!


“Quel che è...”
“Stai parlando da solo? Guarda che tu inizi seriamente a preoccuparmi, “rise Paolo.
“Stavo solo riflettendo ad alta voce, stupido! Non ho soldi a sufficienza per andare a Bologna questo sabato, accidenti.”








“Non fa niente, salteremo. Scusa, vado un attimo in bagno”
“Fa’ presto, non ci capisco un cazzo in algebra! Mi bocceranno, cazzo!”
“Non potresti parlare un po’ meglio” sorrise Paolo alzandosi. Andrea lo aveva guardato  un po’ stranito. Si erano fissati negli occhi per qualche secondo.
“Cercherò di esser meno volgare” aveva risposto arrossendo, chissà poi perchè, ed era tornato a guardare il quaderno. Si era sentito in imbarazzo guardandolo negli occhi. Ecco che di nuovo non capiva cosa succedesse.
Mordicchiava la penna biro nervosamente. Non ci capisco nulla! pensava, ma in realtà non si riferiva solo all’algebra! Si era alzato dalla sedia di scatto ed era andato a cercare Paolo.
“Sbrigati, non so come si calcola una cosa!” aveva detto aprendo la porta del bagno.
“Ma che..?! Chiudi la porta, imbecille!” aveva protestato l’altro, agitando le braccia contro Andrea che aveva violato la sua privacy.
Lui l’aveva richiusa con vergogna ed era tornato ad aspettarlo al tavolo di cucina.
“Che razza di maleducato che sei!” lo rimproverò il ragazzo tornando.
“Scusa.”
Avevano ripreso a fare gli esercizi di matematica, ma Andrea moriva dalla voglia di fare una domanda all’amico. Era imbarazzato, ma la curiosità prendeva il sopravvento.
“Ma tu... ecco... pisci ancora da seduto... come le bambine?” gli chiese infine, timidamente.
Paolo scoppiò a ridere.
“Quanto sei stupido, non ti è venuto in mente che magari stessi facendo quell’altra cosa...? Comunque sei proprio uno sfacciato, guarda. Idiota cronico!” sostenne scherzando.
Veder ridere Paolo lo rendeva alquanto felice, non come veder ridere P., comunque...
“Dai, fa’ vedere l’esercizio. Non voglio che bocci. Vorrei andare al liceo con te.”
Al liceo? Stava scherzando? Come avrebbe potuto? Avrebbe forse tentato di corrompere tutto il corpo insegnanti con le sue prestazioni sessuali? Abominevole! Inorridì immaginandosi come il protagonista di un’orgia tra i banchi di scuola. Gli apparve pure una sorta di titolo per un eventuale film porno. Osceno! si disse fra sé, ma non riuscì a trattenere un risolino.

Andrea si mise a ridere al pensiero di quei ricordi. Erano giorni così lontani ormai. Anche Paolo era lontano, troppo lontano, proprio lui che non avrebbe mai voluto separarsi dal suo più caro amico. Proprio lui che sempre aveva combattuto contro tutto e tutti pur di avere la sua amicizia soltanto per sè. Paolo gli mancava veramente, adesso, con i suoi capricci, la sua ambiguità, la sua gelosia...

Era autunno già da due settimane e la data aveva coinciso con l’inizio della scuola. Presto ai diciannove studenti della terza A se ne sarebbe aggiunto un ventesimo: una deliziosa alunna dai timidi occhi azzurri e dai riccioli biondi che le scendevano morbidi fin sui fianchi. Un vero angelo!
Tutti rimasero affascinati vedendo entrare in classe quell’eterea figura, giunta in un grigio e noioso mattino di pioggia. Come un raggio di sole, che infastidisce improvviso e dritto negli occhi, con gran disappunto di Paolo andò a sedersi vicino ad Andrea. Paolo storse la bocca in








 una smorfia di disgusto, ma d’altronde quello era l’unico banco libero. Quel posto era stato suo solo per cinque giorni dall’ inizio dell’anno scolastico, ovvero il tempo necessario affinchè i professori si spazientissero per il loro ciacchierio durante le lezioni e provvedessero a separarli. Paolo ogni anno ci provava a metterglisi vicino, ma non superava mai una settimana.
La nuova arrivata si chiamava Marina e simpatizzò subito con Andrea.  Naturalmente questo suscitò ancora di più la gelosia di Paolo, e come se non bastasse l’amico ricambiava la simpatia per la ragazzina. Trascorsero un intero pomeriggio a studiare insieme a casa di lei. Paolo non rivolse la parola ad entrambi per una settimana. Teneva il broncio come un bambino e si negava perfino al telefono. Con suo gran sollievo, l’amicizia di Andrea con Marina ebbe termine a fine ottobre. Lei si trasferiva in un’altra città a causa del lavoro del padre. Gli lasciò il suo nuovo indirizzo strappandogli la promessa che un giorno si sarebbero rivisti. Nel frattempo si sarebbero comunque scritti e telefonati.
Nonostante i vari tentativi di rappacificazione da parte di Andrea, Paolo continuava a tenergli il muso. Quella era gelosia? E di che tipo? Era normale la gelosia che provava per lui? Era gelosia tra amici oppure...? Andrea non capiva. Erano poco più che bambini. Voleva molto bene a Paolo, era sempre stato il suo amico del cuore, sì ma
Ma che diamine! Sembrava esser geloso come lo sarebbe stata una ragazza del proprio ragazzo. Una ragazza gelosa del suo ragazzo che studia con un’amica. Una ragazza. Diavolo, lui era il suo amico, non la sua ragazza! Quanto a P., be’ pure lei gli serbava rancore. Logico non gli andasse a genio che ad Andrea piacesse una ragazza che non era lei. Si sentiva tradita.
“Niente di personale, ma...” accennò un pomeriggio Paolo, “credi di esserti comportato bene con P.?”
E che c’entrava lui con P.? Non era una faccenda che lo riguardava quella! Ma che voleva da lui?
“Non avevi mai mostrato interesse per una ragazza che non fosse P. prima d’ora. Sai, non mi sei sembrato corretto nei suoi confronti.”
“Ma non dire scemenze!” aveva replicato Andrea.
“E cosa intendi fare? Le scriverai?”
Si erano fermati a discutere ai giardinetti vicino casa. Fortuna che era l’ora di pranzo ed erano deserti, altrimenti chissà cosa avrebbe pensato la gente udendoli. Sembrava quasi una lite tra fidanzati! Andrea si vergognò per aver fatto una constatazione del genere.
Gli occhi di Paolo erano colmi d’odio. Era la prima volta che vedeva l’amico così furioso e gli metteva quasi paura.
“Il gioco dei segreti!” gridò Paolo, come fuori di sè. “Facciamo il gioco dei segreti!”
“Che palle!” sbottò l’altro.
“Sono disposto a farti perdonare da P. soltanto se confessi cos’hai fatto con quella...!”
“E va bene” sospirò Andrea, rassegnato. “Non ho fatto niente di strano tranne studiare.”
“Ti piaceva, però, quella là...!”
“Era senza dubbio molto carina,” ammise lui, “ma non provavo particolare interesse per lei. Puoi dirlo a P., è la verità. E non è successo niente tra noi, te lo giuro.”








Paolo non sembrava troppo convinto. Storceva il naso, come era solito fare quando secondo lui gli stavano raccontando un mucchio di frottole. Quel suo atteggiamento infastidiva non poco Andrea.
“Ad ogni modo non devo certo giustificarmi con voi!” gli disse in tono seccato. “Sono libero di trascorrere i pomeriggi con chi voglio. Io e P. non stiamo mica insieme!”
Non stavano insieme, questo era vero. Era la verità, d’accordo, ma un po’ faceva male sentirglielo dire con quel tono così duro. E se faceva male a Paolo, figurarsi a P.! Lei finora non si era fatta troppe domande sul tipo di rapporto che avevano. Uscivano insieme per  andare al cinema, guardavano film in cassetta, giocavano ai videogames e studiavano. Tutte cose che Andrea faceva anche con Paolo. Insomma, facevano cose normali che si fanno tra amici. Tra amici. Amici. Ecco qua come stavano le cose: La natura del loro rapporto era pura e semplice AMICIZIA. Come avrebbe dovuto comportarsi in futuro? Il loro rapporto sarebbe giunto ad una svolta, avrebbe progredito, oppure
Inevitabilmente, sarebbe morto?
Per qualche giorno non si parlarono di nuovo. Andrea si rese conto di aver esagerato, di esser stato troppo duro rivolgendogli quelle parole. Lo capiva. Sapeva quanto avessero pesato quelle parole sull’amico, tuttavia non intendeva affatto chiedergli scusa. Paolo fu il primo ad abbattere il suo muro d’orgoglio e convinse P. a telefonargli. La voce della ragazza sembrò sciogliere in parte il gelo tra loro.
“Ci vediamo sabato?” aveva azzardato P.
“Mi dispiace, questo fine settimana vado con i miei dagli zii di Modena” gli aveva risposto Andrea, ma era una balla. P. aveva avvertito che doveva trattarsi di una scusa, ma non aveva detto niente.
L’indomani era venerdì. Durante tutte le prime due ore di matematica, Paolo non aveva distolto lo sguardo dall’amico un solo istante. Fissava il suo profilo, un paio di file davanti a lui, alla sua sinistra. Si sentiva fortemente attratto da lui, non poteva certo negarlo. Ogni tanto Andrea, che si sentiva osservato, si voltava verso di lui. I loro sguardi s’incrociavano e allora Paolo abbassava gli occhi sul quaderno, mentre la sua faccia si faceva rossa per la vergogna.
Al momento della ricreazione Andrea si era abilmente defilato in bagno per sfuggire all’amico, ma l’altro l’aveva aspettato sulla soglia della porta.
“Che fai? Mi sorvegli?”
“Non voglio litigare per delle cazzate... Se non ti va di uscire con P. domani dillo senza tante storie!”
“Come vuoi tu, allora dille che non ho voglia di vederla!”
“Ma perché? Ce l’hai con me o con lei?”
“Con tutti e due!” gli rispose incazzato. “E adesso spostati da lì... Che fai mi aspetti al bagno come fanno le femmine?!”
“Che stronzo che sei! Per forza son venuto qui, hai fatto di tutto per...!”
“Non urlare, cretino, che ci guardano.”
“Credo che dobbiamo parlare. Sabato o quando vuoi. A Bologna o dove cazzo preferisci tu. Vorrei chiarire delle cose...”








Avrebbero chiarito? Andrea era dispiaciuto per aver nuovamente litigato col suo migliore amico, e si rendeva conto che P. gli era tutt’altro che indifferente ma
Fu Andrea a chiamare P. la sera stessa, verso le dieci. Si dettero appuntamento come di consueto alla stazione centrale di Bologna per le sedici.
P. notò che l’amico si era un po’ calmato e il tono della sua voce non era più arrabbiato e litigioso come la mattina a scuola. Ne fu sollevato, ma fu costretto a ricordarsi che con P. lui era sempre stato gentile e mai una volta aveva alzato la voce con lei. Mentivano a sè stessi, entrambi.
“Ti stai umiliando per uno stronzo come me, perdonami! Io lo so chi è P. solo che solo che..”
gli aveva perfino detto Andrea una volta, piangendo. E Paolo l’aveva compreso e ammirato per la sua sincerità.





































                                                  Capitolo secondo      

                                                 

Fermarsi un istante a riflettere non sarebbe stata una brutta idea. Aveva in testa lo sguardo felice dell’amico, quell’aria trasognata, ogni volta uscivano insieme. Fermarsi un momento e cercare di capire se fosse uno sbaglio o meno. Era stato solo un gioco all’inizio per lei. Ad Andrea quel gioco era piaciuto e lo aveva convinto a continuare. Lo trovava divertente giocare ai fidanzatini. Avrebbero continuato a giocare per sempre? P. si era immedesimata ormai troppo nella parte, mentre Andrea avrebbe mantenuto a quello stadio il loro rapporto per sempre... Ma il per sempre non è forse solo un’amara speranza?
Tutti i fine settimana i due prendevano il regionale per Bologna. Viaggiavano in scompartimenti diversi, poi si incontravano in stazione davanti alla biglietteria. Erano due complici lontani e liberi dalla paura di eventuali sguardi indiscreti.
Successe sulle gradinate della Basilica di San Petronio. Chissà come le loro teste erano venute a trovarsi così vicine tra loro. Le loro bocche a pochi centimetri. P. si sentiva perfetta nel suo ruolo e riteneva che anche Andrea lo fosse nel suo, ma qualcosa stonava in quel dolce quadretto. Una stonatura. Una distorsione.... ma P. non la notò e avvicinò le labbra ancora di più a quelle dell’amico. Andrea evitò quello che aveva tutta l’aria di divenire un bacio girando un po’ la testa. A quella reazione lei comprese il suo errore. Sì vergognò da matti e chiese ripetutamente scusa al ragazzo.
Si erano incontrati per parlare, poi invece tutto era andato nel dimenticatoio. Avevano camminato senza dirsi una sola parola. Il pomeriggio era trascorso come al solito, in giro per le strade di Bologna, mangiando un gelato, e fermandosi sui gradini della chiesa dove erano soliti sedersi. Poi, lì, sulle scale... Dio Mio, era la fine! Quel gesto aveva in parte risvegliato l’amico dal suo stato di catalessi mentale. In parte, solo in parte, per il momento, però quello era stato l’incipit buono perchè Andrea iniziasse a guardarsi attorno e si rendesse conto.
“Torniamo a casa, dai” fece Andrea, con lo sguardo assente, alzandosi in piedi.
P. si alzò di conseguenza.Dal tono della voce non le era sembrato troppo arrabbiato. Tornando verso la stazione si persero di vista tra la folla, sotto i portici di Via Indipendenza. Andrea salì sul treno che l’avrebbe riportato a Ferrara, certo che anche P. avesse fatto lo stesso, ma la ragazza era rimasta chiusa in un cesso della stazione a piangere.
Stava iniziando a piovere. Il treno prese a muoversi, lentamente. Andrea, immerso nei suoi pensieri, osservava distrattamente la sua immagine riflessa nel vetro.
“Lo vorrei uccidere quel cretino!” pensava passandosi un dito sulle labbra e avvertiva un brivido lungo la schiena al ricordo di quel tentato bacio. Non era stato piacevole, per niente, tuttavia non riusciva ad avercela con lui, non lo odiava, non
Semplicemente era rimasto turbato da quel gesto inatteso. Solo turbato? Non avrebbe dovuto schifarsi? Schifarsi... ma perchè?! Dubbi che gli si contorcevano nello stomaco e nel cervello. Quello che gli faceva paura era il fatto che in certi momenti il suo carattere deciso andasse a
farsi friggere con P. facendolo sentire un perfetto idiota.






P. camminava sola sotto i portici. Rivedere Andrea non era stata una buona idea. Incontrarsi in un’altra città, sotto un cielo meno accusatorio, sotto occhi diversi di gente diversa. Gente che non sapeva, che non li avrebbe accusati, che non avrebbe giudicato.
Andrea chiamò Paolo a casa sua, ma la madre gli rispose che era ancora fuori con gli amici. Già, fuori... Stava piovendo, dove cazzo si era cacciato quello stupido?! Uscì, senza ombrello. Salì al volo su un autobus diretto alla stazione. Erano già le otto di sera. L’aria era piuttosto fredda e stava iniziando a scendere giù anche del nevischio. Adesso non cadevano più gocce di pioggia ma candidi fiocchi di neve. L’altoparlante annunciò l’arrivo di un treno proveniente da Bologna al binario cinque. Attraversò correndo il sottopassaggio e si mise impaziente ad aspettare lungo la piattaforma numero cinque. Non sapeva bene perché ma era quasi certo che P. sarebbe arrivata con quel treno. Il treno fischiò entrando in stazione. La neve stava scendendo più lentamente, ma il freddo pungente trapassava la sua giacca a vento. Vide P. scendere dal convoglio e le andò incontro.
“Cosa ci fai qui?” gli chiese lei sorpresa di trovarselo lì davanti.
“Quanto vuoi mentire ancora?  I tuoi occhi... hai tutto il trucco rovinato... hai pianto? Scusa, è anche colpa mia. Dovevamo fermarci prima, prima di...”
P. gli si gettò tra le braccia singhiozzando, impedendogli così di finire la frase. Andrea la strinse forte a sé. Continuava a nevischiare. Faceva freddo, ma quello era niente in confronto a ciò che li attendeva. Quello che giungeva sarebbe stato il più freddo novembre che i due avrebbero vissuto.
“Mia madre è fuori a cena. Puoi venire da  me a cambiarti, non vorrai tornare dai tuoi con quella minigonna spero!”
P. scoppiò a ridere, ma era un riso nervoso. Capì che l’amico voleva tirarla sù di morale, tuttavia non poteva evitare di ricordarsi che proprio lui era la causa di tutta quella situazione.
Tornarono a casa mano nella mano. Oggi glielo doveva. Sentiva che doveva stargli vicino in qualche modo. Entrarono furtivi nella palazzina. Andrea temeva gli sguardi indiscreti dei vicini. Controllò in ogni direzione, in ogni angolo: Via libera.
Salirono con l’ascensore. L’atmosfera era piuttosto tesa tra i due. Una volta nell’appartamento P. si tolse la gonna e si rimise i jeans che aveva nascosto nello zaino quando si era cambiata nel bagno della stazione di Bologna.
“Il trucco te lo lasci?”
“No, meglio di no, che dici?” rispose ironica P. abbozzando un mezzo sorriso.
“Com’è che ti sei messa a frignare? E’ stato per causa mia?”
“Non so cosa risponderti” sostenne lei.
“Di chi è la colpa? Mia? Però sei tu che hai cercato di...” Baciarmi? Che vergogna dire certe cose e poi era sicuro di aver capito le sue intenzioni? Non aveva frainteso?
“Lascia perdere, scusa. Penso sia soltanto colpa di Paolo, no?” ammise P. tristemente arresa.
“Io e lui litighiamo sempre...”
“Lo so. Perdonalo, non succederà di nuovo. Bene, me ne vado a casa o mia madre inizierà a stare in pensiero non vedendomi tornare. Ci vediamo domani a scuola.”
“O.k, a domani.”
“Andrea... scusami davvero per oggi. Mi sono lasciata andare un po’ troppo. Non sono mica






la tua ragazza, certo che no, sono solo un’idiota! Posso immaginare quanto ti abbia fatto schifo il fatto che stessi per baciarti... Ti giuro che non credevo di arrivare a tanto, mi sono spinto troppo oltre!” Ecco che ammetteva proprio quello di cui Andrea aveva avuto il sospetto. Cazzo, intendeva veramente baciarlo! Sentì un brivido percorrergli la schiena.
“Ho capito una cosa importante, sai. Domani andrò a tagliarmi i capelli, che dici mi scambieranno per un maschio anche se dovessi indossare la gonna? Be’, magari non la indosserò più quindi non ci sarà alcun problema... Rinuncerai a P., giusto?”
Avrebbe voluto dirle qualcosa. Avrebbe continuato ad uscire con lei il sabato pomeriggio. Avrebbe continuato ad esser P. per lui. Avrebbe voluto abbracciarla come prima alla stazione. “Non avercela con me, ti prego. Non serbarmi rancore, non disprezzarmi!” lo supplicò P.
“Ma no, scema. Io ti voglio bene, ma non chiedermi niente di più che semplice amicizia. Non provo attrazione per te...” le confidò, timidamente,”scusa, mi fa un po’ senso la cosa...”
“Solo un po’? Allora c’è speranza...” ridacchiò P.
La ragazza che gli stava davanti era carina. Ad esser sinceri con sé stessi, era molto carina. La ragazza che gli stava davanti gli piaceva. La trovava carina e gli piaceva. Uscivano insieme come due fidanzati. Si mentivano a vicenda. Gli ultimi sviluppi di quella sorta di “storia” avevano però messo qualche dubbio ad Andrea.
Normale. Sì, io sono normale. Recentemente se lo ripeteva più volte al giorno. Da quel sabato d’inizio novembre. Da quel tentato bacio...
Chi era P.? Perché usciva con lei? Che diavolo stava facendo? Se lo chiedeva, adesso se lo chiedeva.
“Perché esci con me?” Un bel giorno Paolo se n’era uscito con quella domanda.
Gli aveva telefonato un pomeriggio desideroso di ricevere una risposta convincente.
“Cosa ne pensi di P.? E di me? Ho fatto tutto come hai sempre voluto tu, ma quanto durerà questa farsa? Dimmi, cosa siamo io e te? Eh, dimmi, cosa siamo noi?”
Rimase perplesso nel sentire quelle parole e attese qualche istante prima di pronunciar parola. “Non c’è nessun noi...” fu, poi, la cruda risposta di Andrea. “E comunque non esco con te” ci tenne a precisare, ”ma con P.! Con una ragazza! Ficcatelo in testa! Io non sono come te, non provo la minima attrazione fisica per quelli del mio stesso sesso!”
“Sta’ zitto! Basta stronzate! Che c’entra che esci con P.?! Quale ragazza?! Non c’è mai stata nessuna ragazza! Finiscila, ti prego...” si stava alterando Paolo “o sei matto per davvero?!”
Calma. Non doveva perdere le staffe. Non doveva e soprattutto non voleva!
“D’accordo, era un gioco ed è durato fin troppo. Non hai nessun obbligo nei miei confronti. Era un gioco, solo un gioco, mi sembrava divertente...” sosteneva le sue ragioni Andrea.
“Bravo, sì, un gioco! Hai giocato con me per quasi due anni, per l’esattezza hai giocato con i miei sentimenti! Tu per me sei molto più che un amico d’infanzia!”
Andrea gli aveva riappeso il telefono in faccia.
‘Fanculo quell’idiota di un suo amico, gay del cavolo che non era altro! Lo odiava a morte in quel momento. Il gioco era veramente finito. Avrebbe dovuto sentirsi in colpa per aver ferito i suoi sentimenti?! E perché?! Era stato solo un gioco, no? E se poi quello scemo si era lasciato trasportare dalla situazione e si era innamorato di lui... be’ affari suoi! E poi si era
...Innamorato?! Come poteva essersi innamorato di lui? Erano due ragazzi! Due maschi! I







maschi si innamorano delle femmine, no? Delle femmine!
Passò la notte senza chiudere occhio. In realtà, nel profondo della sua coscienza, sapeva di essere responsabile dell’accaduto. E non se lo perdonava. E Paolo era ancora il suo migliore amico. E perché diavolo aveva sbraitato tanto al telefono?
La mattina dopo, a scuola, Andrea fece le sue scuse all’amico. Paolo sentiva un groppo in gola che non gli permetteva di parlare. Aveva incassato come sempre gli sbalzi d’umore dell’altro, ma Andrea era fatto così. E dopo esser stato in coma era pure peggiorato.  Comunque aveva fatto lo sforzo di chiedergli scusa, era già molto, si sarebbe accontentato ma “Ma cosa ne diresti di rimanere amici? Ti chiedo troppo?” azzardò Paolo.
Tutto sommato la colpa era anche un po’ sua. Perché se l’era presa così a cuore? Certo, Andrea non avrebbe mai ricambiato il suo amore. Certo, lo sapeva. Mai.
“Per me va bene...” gli rispose, anche se non troppo convinto l’altro.

Il calendario  segnava la fine di novembre.
Il calendario di Andrea era sballato, come sembrava essere sballato tutto ciò che lo circondava. Tutte le persone che gli ruotavano attorno erano sballate. Lui stesso era sballato. Il suo cervello ragionava in modo sballato. E le situazioni in cui finiva sempre di conseguenza erano sballate.
 La professoressa Vannini lo faceva trasalire ogni volta che posava il suo sguardo su di lui. La malizia nei suoi occhi e nei suoi gesti, quando lo incontrava da solo nei corridoi della scuola, lo rendeva impotente. Rideva di lui, scherniva la sua timidezza, lo trattava come il suo giocattolo. Lo provocava spudoratamente. Lui non osava ribellarsi in nessun modo per timore di esser ricattato con minacce di rivelare che aveva “comprato” la sua ammissione in terza. Se lui avesse parlato la Vannini sarebbe stata radiata dall’albo degli insegnanti, ma lui avrebbe perso la faccia. Si trattava di resistere fino alla fine dell’anno scolastico. Resistere.
Ripensandoci adesso tutti quei mesi erano volati via tra una partita di calcio e l’altra. Andrea era entrato a far parte di una squadra amatoriale di calcetto e qualche volta anche Paolo si era unito a loro. Così i due avevano avuto un pretesto per frequentarsi più assiduamente. Era tornata in scena anche P. nei fine settimana. Andrea avvertiva troppo la mancanza dell’amica, quasi a dimenticarsi che in realtà Paolo era sempre lì con lui. Aveva qualcosa di marcio nel cervello se davvero voleva continuare a credere che P. fosse P. e Paolo Paolo!
Erano andati insieme a Rovigo e una volta al mare. Nei giorni precedenti l’esame si erano visti poco. Poi, finalmente era tutto finito. Scritti e orali. Si aspettava l’esito finale con impazienza. Paolo era alquanto tranquillo, Andrea un po’ meno.
“Come stai? Stasera andiamo fuori a festeggiare la fine degli esami, vieni?”
“Nessuno mi ha detto niente...”
“Perché sei stato il primo a fare l’orale e gli altri l’hanno deciso dopo, quando già te ne eri andato. Mi ha chiesto Giulio di dirlo anche a te. Andiamo a mangiare una pizza alla Plaza, è qua vicino.
L’aveva ascoltato parlare completamente rapito dal tono della sua voce. Gli sembrava un secolo che non gli rivolgeva la parola!
“Ci vengo.”







“O.k., a stasera!” lo salutò l’amico sorridendo e dandogli una pacca sulla spalla.
“E se... non fossi stato promosso? No, aspetta, credo di esser andato male all’orale e poi anche nel compito di matematica devo aver sbagliato un calcolo e...!”
“Piantala, scemo! Ci penserai quando sarà il momento. Dai, ormai quel che è fatto è fatto” sostenne, strizzandogli un occhio.
Quando giunse in pizzeria trovò Paolo che parlava e rideva con i loro compagni di classe. Sembrava divertirsi molto. Si trovava perfettamente a suo agio con gli altri ragazzi. Lui invece non parlava quasi mai con nessuno. Rimase turbato vedendo che Paolo non aveva alcun problema a socializzare con il prossimo. Avvertì l’improvvisa voglia di girare sui tacchi e andarsene. Paolo però si accorse della sua presenza e gli fece gesto di raggiungerli. Erano già tutti seduti ad una lunga tavolata. L’unico posto rimasto vuoto era in fondo alla fila; Paolo era  dalla parte opposta. Pazienza. Sperò che la cena fosse breve. Mai come in quel momento avrebbe voluto trovarsi altrove, anni luce, da quell’ allegra combriccola. Vedere Paolo in quel contesto lo metteva a disagio. Vedeva un ragazzo diverso da quello che era quando erano loro due soli. Lui non era un tipo estroverso come l’amico, tutt’altro. Un po’ lo invidiava, ma al tempo stesso era infastidito nel vederlo parlare tanto appassionatamente con quei ragazzi. Gli sembravano tutti dei perfetti sconosciuti. Anche Paolo gli appariva come un estraneo quella sera.
Nei giorni seguenti, andando a scuola per leggere i risultati e prendere la pagella, incontrarono la Vannini.
“Buongiorno prof!” la salutarono i due ragazzi.
“Perché quella faccia? Non ditemi che avete paura di non essere stati promossi!” sorrise lei.
“Com’è andata?” chiese timidamente Andrea.
Lei rise. “Be’, io ti avrei tenuto qua anche per un altro anno... Mi mancherà qualcuno da stuzzicare, sei talmente ingenuo!” gli confidò scherzando, forse.
Andrea non rise affatto. E poi come si permetteva di metterlo in ridicolo davanti a Paolo? Maledetta, la detestava con tutto il cuore, quella stronza!
Furono tutti promossi.
A settembre avrebbero iniziato a frequentare le scuole superiori. Paolo si era iscritto al liceo classico. Sognava di diventare insegnante un giorno, mentre Andrea non aveva alcun progetto per il futuro, era del tutto indifferente all’idea. Si era scritto allo stesso liceo dell’amico solo per stare in sua compagnia e per render felice la madre che desiderava continuasse a studiare. Anche gli insegnanti gli avevano consigliato di non lasciare gli studi. Negli ultimi tempi si era messo sotto per migliorare e anche durante le vacanze estive era andato a ripetizione da una studentessa universitaria, sua vicina di casa. Si sentiva un verme ricordandosi di quello che aveva fatto l’anno prima per passare in terza media. Stava accorgendosi di potercela fare. Ci avrebbe provato.
“Tra pochi giorni saremo alle superiori... Ti confesso che la cosa un po’ mi spaventa” ammise Andrea.
“Non preoccuparti farò il possibile per aiutarti. Sono convinto che tu possa farcela. E poi tua madre anche se tu dovessi decidere di interrompere la scuola non te la menerà più di tanto, mentre mio padre...! Lui vorrebbe vedermi laureato ad ogni costo, solo questo conta per lui.






Vuole che mi laurei con buoni voti e che mi trovi una brava ragazza con cui sposarmi e... E io che cavolo posso fare? Sono costretto a fare come vuole lui, per il momento. Se scoprisse che delle donne non mi frega un tubo e che sono fisicamente attratto dal sesso maschile mi ammazza. Crede che io esca con una certa Anna... Eppure un giorno dovrò dirgli la verità! Mia madre forse potrebbe anche capire, ma un tipo ostinato e all’antica come mio padre non l’accetterebbe mai!”
“E allora che farai? Gli mentirai per sempre? Io penso dovrebbe comprenderti, infondo la vita è la tua, no?” aveva tentato di rassicurarlo Andrea.
“La fai facile tu! Che ne sai di com’è mio padre?! Lui vede solo le cose che vuole e come vuole lui! Tra noi c’è un muro in cui non riuscirò mai ad aprire un varco per mostrargli i miei sentimenti! Tu non puoi certo capire!”
“Non hai le palle per dirgli come stanno le cose? Ma dovrai farlo prima o poi!”
“Mio padre mi sbatterebbe fuori di casa se lo scoprisse! Se sapesse che sono innamorato di un ragazzo, lui...! Ah, ma che senso ha parlarne con te!”
La conversazione stava prendendo una brutta piega. Andrea iniziava a non poterne più di tutte quelle lamentele. Ora basta!
“Sai cosa ti dico, ringrazia il cielo che tu ancora ce l’hai un padre!” sbottò Andrea.
A quelle parole, nude e crude, Paolo rimase come pietrificato. Sentì il sangue che gli si gelava nelle vene. Quant’ era stato stupido. Distrattamente stupido! Andrea si voltò dall’altra parte. L’altro si sentì un verme. Non ci aveva fatto caso a quello che diceva. Idiota che non era altro. Anzi, doppiamente idiota. Tentò di recuperare la situazione scusandosi a dovere con l’amico. Andrea dal canto suo l’aveva già perdonato, solo che
Solo che avrebbe voluto sfogarsi e piangere come un bambino. Si sentiva tanto impotente. Soprattutto difronte alla morte. Quella Morte che lo aveva risparmiato due anni prima e quella stessa Morte che aveva portato via suo padre. Quella Morte che qualche volta aveva desiderato per sé.
“Scusami, ti prego. Dì qualcosa, per favore!” lo supplicava Paolo.
E Andrea niente. Teneva gli occhi fissi sulla parete. Le parole mio padre erano entrate taglienti nella testa di Andrea. Tratteneva le lacrime con uno sforzo disumano. Aveva distolto lo sguardo dal muro e, ora, teneva gli occhi sbarrati sul pavimento.
Paolo aveva cercato di avvicinarglisi con una mano, ma non appena aveva sfiorato il suo braccio lui l’aveva scacciato via violentemente. Imperterrito aveva continuato a fissare le mattonelle decorate con motivi floreali dell’impiantito del salotto di casa sua. Alla fine il ragazzo aveva deciso di tentare il tutto per tutto, rischiando di farlo innervosire e turbarlo ancora di più. L’aveva abbracciato più forte che poteva, stringendolo da dietro. Era pronto ad affrontare la sua reazione, qualunque fosse stata. Era pronto a ricevere un diretto in pieno volto. Era pronto a farsi detestare ancora di più. Era pronto a tutto, non gli fregava.
“Mi respingerà! Si volterà mollandomi un cazzotto e l’avrò meritato!” si disse. Ma Andrea rimase immobile. Il calore di quell’abbraccio era confortevole. L’aver lottato allo stremo delle sue forze per trattenere le lacrime si rivelò inutile a quel gesto. Gli occhi gli si riempirono di commozione. Si lasciò andare e le sue lacrime bagnarono le mani di Paolo, strette attorno alla sua vita.







“Non fare così, scusa...”
“Che figura da scemo!” rise Andrea, mentre con la mano si asciugava gli occhi. Non credeva di poter essere tanto debole in presenza di Paolo. Con lui si era sempre mostrato forte e sicuro di sé... La femminuccia era Paolo, non lui!
“Adesso, però, lasciami. Mi sento a disagio, non sono mica una ragazza!” replicò Andrea, liberandosi dalle braccia dell’amico.
Paolo lasciò immediatamente la presa. Arretrò di qualche passo. Non disse niente. Era pieno di vergogna. Il suo gesto era stato audace, ma ora si sentiva imbarazzato a morte. Con Andrea era sempre così. Nonostante sognasse molto frequentemente di avere dei rapporti sessuali con lui, nella realtà non gli riusciva per niente facile esternare i propri sentimenti. Probabilmente la causa principale di questo era la paura di esser rifiutato e di mettere a rischio la loro amicizia. Forse il suo blocco psicologico nasceva proprio da questo.


















                                                


















                                                         Capitolo terzo



I capelli di Paolo si erano allungati di nuovo e il primo giorno di scuola arrivavano già più giù delle spalle. Se li era legati con un elastico rosso ed aveva fatto sparire la frangia dalla fronte. A guardarlo adesso aveva certo un aspetto più maschile di quello studentello effeminato che era stato alle medie. Andrea si accorse che molti sguardi femminili si posavano sull’amico. Paolo era davvero un bel ragazzo, non passava certo inosservato. La loro classe era composta quasi tutta da femmine: venti ragazze contro tre ragazzi! L’altro maschio era Fabrizio, un ragazzino dal sorriso sempre stampato sulla faccia. Il suo carattere solare piacque da subito a Paolo. All’inizio Andrea rimaneva un po’ in disparte, non partecipava ai loro discorsi, ma pian piano formarono un trio davvero affiatato. Suo fratello Yuri era il leader di un gruppo rock abbastanza conosciuto tra i giovani, gli Y.M.I.F. Il nome era formato dalle iniziali dei nomi dei componenti della band, di cui faceva parte anche Fabrizio.
“Stasera suoniamo al Noise. Ho dei biglietti in più, se vi va di venire a sentirci... A mio fratello farebbe molto piacere conoscervi!”
Paolo e Andrea accettarono volentieri l’invito. Il locale non era molto grande e i fans lo riempivano tutto. Incredibile, i biglietti erano esauriti!
Fu una bella serata e per Andrea segnò quello che sarebbe diventato il ricordo della sua famosa-prima-sbronza. Era così andato che Yuri non se la sentì di riaccompagnarlo a casa in quelle condizioni, ma lo portò da lui.
“Non preoccuparti, telefono io a tua madre per dirle che passi la notte da me. Tanto domani è domenica, non ci saranno problemi. Le dico che non ti reggi in piedi dal sonno e che non te la senti di tornare a casa in motorino.”
Già adesso aveva il motorino, era stato il regalo di suo madre per esser stato promosso. Un classico, no?
Aveva sentito Yuri parlare al telefono con sua mamma. Aveva risolto tutto mentre lui collassava sul divano letto. Non era mai stato così male. Intravedeva un’ombra che si muoveva nel corridoio e poi sentiva passi che si aggiravano attorno al tavolo della stanza in cui si trovava lui. Doveva trattarsi del salotto. Come era giunto fin lì lo ignorava. Una coperta copriva il suo corpo, ne era certo, e sotto la testa aveva un cuscino. Crollava dal sonno e la testa gli girava da matti.
“Sto da cani!” pensò toccandosi la fronte, tuttavia era sereno. Si sentiva quasi felice di trovarsi in quel posto. Gli parve il luogo migliore del mondo.
Luci che si accendevano in altre stanze e rumori alquanto misteriosi di oggetti che sbattevano da qualche parte facevano da sottofondo a quella strana notte.
“Yuri...!” chiamò a mezza voce. Voleva accertarsi di essere ancora da lui. Non gli giunse alcuna risposta. Poco dopo si addormentò.
Si svegliò nella tarda mattinata.
“Ti ho preparato il caffè. Lo bevi?” gli domandò una voce semisconosciuta, avvicinandosi al suo viso.






Ancora tra il sonno, Andrea, sussultò per lo spavento. Lì per lì si era scordato di non essere nel suo amato letto. Si sentiva disorientato. Guardò un po’ perplesso la faccia sorridente di Yuri che lo stava fissando. Arrossì: Era davvero un bel ragazzo, ecco perché tante ragazzine gli morivano dietro!
“Ti chiedo scusa per il disturbo...”
“Figurati. Piuttosto, come ti senti?”
“Mi fa un po’ male la testa...”
“E’ normale. Era la prima volta che ti ubriacavi, eh? Sembra che il tuo amico regga l’alcool meglio di te...” gli disse sorridendo.
Aveva un modo di parlare che rapiva completamente la sua attenzione, quasi lo imbambolava. Il suo sorriso poi... Ah, un momento, “il tuo amico?” Parlava di Paolo!
“Lui è tornato a casa?”
“Sì. Stamattina ha chiamato per avere tue notizie, sembrava così preoccupato!”
“Sì, lui è così” rispose sorridendo Andrea.
Yuri lo guardò sorpreso. Aveva notato una leggera sfumatura nel tono della sua voce mentre parlava dell’amico. Un qualcosa che probabilmente altri non notavano.
Lo sguardo fisso di Yuri lo metteva in imbarazzo. Provava quasi soggezione nei suoi confronti. Yuri sorrideva in un modo così così così
Così sensuale!
Argh! Accidenti a lui, che diavolo pensava! Probabilmente erano ancora gli effetti dell’alcool. Gli avevano fritto ben bene il cervello! Pensava cose senza senso.
Yuri sembrava divertito da quel ragazzino dall’aria così timida che cercava di nascondere il rossore del viso coprendosi le guance con le mani.
“Ti è piaciuto il concerto?” gli chiese.
Andrea annuì con la testa. Quando Yuri si spostò verso la finestra per aprire le tende, lui si alzò dal divano. Vide che aveva ancora addosso i vestiti della sera prima e senza saper bene perché si sentì sollevato.
Quello fu il suo primo incontro con Yuri: dieci ore prima gli aveva stretto la mano presentandosi e adesso già era a casa sua! E per giunta a dormire sul suo divano!
Quando nel pomeriggio si incontrò con Paolo tralasciò alcuni dettagli dei pensieri che aveva fatto su Yuri. Il suo cervello era sicuramente ancora imbevuto d’alcool. Tralasciò di parlargli del sorriso, così spiazzante, di Yuri .Tralasciò d’esser diventato rosso come un peperone guardandolo negli occhi. E tralasciò di aver provato qualcosa di particolare, come un’insolita uggiolina allo stomaco accompagnata ad un fortissimo desiderio di scappar via da là. Tralasciò quelle che secondo lui erano cose inutili. Insomma, tralasciò.

Sette anni erano passati da quella volta. Adesso si trovava ancora dentro quella notte che aveva seguito il suo incontro con Paolo. Andrea sorrise ripensando ad allora. Per tanto tempo non aveva sperato altro che dimenticare tutto ciò che era stato, mentre adesso non si opponeva al passato. Lasciava affluire i ricordi, anche quelli tristi, e li lasciava scorrere dentro quella notte. Non se la sentiva di tornare a Ferrara. Prese l’autostrada in direzione Rimini. Alla radio, ironia della sorte, passarono un pezzo degli Y.M.I.F. Era una canzone di due anni





prima. E’ proprio quella che li ha fatti conoscere al grande pubblico, rendendoli tanto famosi. La canzone scritta da Fabrizio. Andrea però ricorda più piacevolmente i concerti degli esordi. E ricorda il ragazzino ingenuo che era allora.

Paolo e Andrea erano diventati presenze fisse ai concerti della band di Yuri. Ogni loro concerto registrava il tutto esaurito. Perfino Paolo che non aveva mai amato il rock si lasciava trascinare dalla loro musica. Forse era anche merito del carisma del loro leader. E poi c’era Irene, la tastierista, che di consueto suonava in minigonna e stando bene attenta a tener divaricate le gambe. Le si vedeva tutto. Lo faceva apposta. Provocare tutti quei maschietti ammassati sotto al palco era la sua maggiore soddisfazione. Ci godeva, Andrea ne era certo, a vederli sbavare alla vista dei suoi slip.
Sia Yuri che Irene avevano delle personalità degne di ammirazione. Andrea rimaneva affascinato da entrambi. Paolo solo da Yuri.
Era un venerdì sera di metà marzo. Concerto al Noise, ore ventidue in punto. Paolo costretto a casa dall’influenza. Andrea che si era piazzato nelle prime file. La musica assordante nei timpani. Irene a pochi metri da lui: Gambe larghe a ore dieci e dieci. Slip azzurri.
Lui avrebbe voluto spostarsi da lì, quella vista lo metteva in agitazione. Perché diavolo doveva suonare in quel modo tanto sbracato?! Sembrava un’indemoniata mentre colpiva con violenza i tasti. Non riusciva a togliere lo sguardo da lei . I suoi occhi facevano su e giù, impazzendo, passando dalle mani alle cosce.  Il pogo dei fans andava rafforzandosi e alla fine pure lui ne fu coinvolto. Gli si prospettarono due soluzioni: venir calpestati senza riguardo da quella massa scatenata o unirsi a loro. Scelse la seconda.
Lo spintonarono da ogni parte. Lui fece altrettanto facendosi strada davanti a lui. Si ritrovò sotto al palco. Ad un metro dalle mutandine di Irene. Lei gli lanciò un’occhiata fugace ma compiaciuta. Sorrise maliziosamente. Tornò a guardarlo più di una volta. Era certo che guardasse proprio lui, e dopo ne ebbe la conferma.
Terminato il concerto decise di andarsene senza neanche salutare Yuri. Voleva fuggire, al più presto, ma la voce di Fabrizio lo trattenne. Sentì chiamare il suo nome alle spalle, quindi si fermò.
“Dove stavi sgattaiolando? Mica te ne andavi, vero?”
“Ho visto eravate così presi a rilasciare autografi e... Scusami sono un po’ stanco vorrei andare a casa...” si giustificò il ragazzo.
“Ultimamente non vieni quasi mai a scuola... E’ successo qualcosa?”
“Sto cercando lavoro. In questi giorni sono stato in prova al fast food non lontano dal nostro liceo. Hanno sempre bisogno di personale. E non c’è bisogno di esser diplomati! “
“Vuoi lasciare la scuola?”
“Sì, non ho chance. E’ troppo dura per me. Ho delle difficoltà, penso l’avrai notato... Non avrei dovuto neppure iscrivermi.”
L’arrivo di Irene interruppe la loro conversazione. Andrea girò lo sguardo verso l’uscita.
“E’ molto tardi, me ne vado” disse.
“Ti è piaciuto il concerto?” chiese lei con un velo di malizia. “Penso di sì. Avevi un posto d’onore! Com’era da lì la vista? Riuscivi a vedere bene?”







“Anche troppo” rispose lui seccato.
Li salutò di nuovo e fece per andarsene, ma Irene lo prese per un braccio. “Non bevi niente? Facciamoci una birra insieme, poi te ne vai!” disse. Andrea a malincuore accettò la proposta. Raggiunsero il banco del bar e ordinarono due birre chiare.
“Salute!” brindò lei facendo battere il suo bicchiere contro quello di lui. Gli occhi di Irene appiccicati sui suoi vestiti, sembravano penetrarlo all’interno del corpo come volessero raggiungere i suoi pensieri più intimi. Avrebbe voluto lanciare un s.o.s. in preda al panico più totale verso Fabrizio. Lo scorse parlare con Matteo, il batterista del gruppo, poco più in là. Era troppo occupato per accorgersi che l’amico aveva bisogno di aiuto.
“Dove stai guardando? Mi sembri a disagio, ti spavento così tanto?”
Che donna insolente quell’Irene! Adesso, si era messa a ridere. Rideva di lui.
“Sei così timido da far quasi tenerezza!” sostenne continuando a schernirlo. “Credevo di piacerti, ma... Tu vieni per Yuri, non è così?”
“Cosa?!” si alterò subito Andrea.
“Ti piace Yuri” affermò convinta. “Ma guarda che lui ogni sera si porta a letto una fan diversa. E’ un tipo alquanto lussurioso, sai. E dire che a letto non è neanche un granché!”
Lo stava prendendo in giro? Quanta meschinità si nascondeva in quelle parole? Stava aspettando la sua reazione a tali rivelazioni forse?
“Guarda che io non sono mica gay!” dichiarò pieno di sdegno. Come poteva accusarlo così? Come si permetteva di fare simili insinuazioni sul suo conto? Ma che voleva?
“Perché te la prendi tanto scusa?”
Non le rispose. La mollò lì e uscì dall’auditorium. Raggiunse il motorino e partì. Sulla strada di casa aveva incrociato varie cabine telefoniche. All’ultima, prima di arrivare alla palazzina in cui viveva, aveva accostato. Aveva tirato fuori la scheda telefonica da cinquemila dal portafoglio. Aveva chiamato Paolo. Gli aveva chiesto come stava e poi
“Mi piacerebbe uscire con P. la prossima settimana”.
“Sei ubriaco?! Mi prendi in giro?! Non mi diverto, sai!”
“Mi manca, te lo giuro. Scusami tanto. Potrai mai capirmi e perdonarmi?” Il tono della sua voce era quasi supplichevole. Aveva uno stramaledetto bisogno di lei.
“Perdonarti forse, ma capirti... Temo vada oltre le mie capacità!” sostenne Paolo. Era rimasto esterrefatto da quella richiesta. Capirlo? Come avrebbe potuto capirlo?
Capiva di essere succube di lui al punto che bastava un suo capriccio per farlo travestire ancora e riprendere a giocare. E giocava con i suoi sentimenti, mentre lui lo amava per davvero. Lo amava e lui
“Che stronzo che sei...” riflettè a bassa voce, con sé stesso, mentre riattaccava.
Quando Andrea rivide P. era già primavera da qualche giorno. Le andò incontro alla stazione di Bologna. Aveva i lunghi capelli sciolti che le incorniciavano quel dolce visino. La pelle bianca e liscia. Gli occhi leggermente truccati con l’ombretto azzurro e un velo di rossetto rosa. Sembrava una bambola di porcellana. Tanto bella e fragile. Una ragazza bellissima, la
più bella che mai avesse visto. Tanto bella e fragile, ma fragile non lo era poi tanto. In più di un’occasione aveva dimostrato di avere un carattere molto più forte del suo. Una personalità tanto decisa che non sarebbe stata piegata facilmente da nessuno. Nessuno tranne qualcuno.





Qualcuno che costituiva il suo punto debole. Qualcuno capace di renderla schiava della sua volontà. Qualcuno per cui forse sarebbe anche arrivata ad uccidere o a farsi uccidere. Qualcuno a cui non avrebbe mai negato niente. Qualcuno che teneva in mano il suo destino.
Le sorrise. Non  la vedeva da mesi. Era difficile sospettare non fosse una ragazza. Indossava un paio di jeans invece della solita gonna, ma non la rendevano comunque meno femminile.
Parlarono della scuola e del lavoro al fast food di Andrea. Era infatti stato assunto da tre giorni, con suo grande entusiasmo. Per il momento lavorava solo di sera, ma presto avrebbe abbandonato definitivamente la scuola e sarebbe entrato nello staff del locale a tempo pieno. Poi il discorso cadde, inevitabilmente su Yuri. Su come fosse diventato un accanito fan degli Y.M.I.F. al punto tale da seguire ogni loro concerto. Paolo si era accorto del modo in cui Yuri fissava Andrea, prima durante e dopo i concerti. Inoltre avevano preso ad uscire insieme anche al pomeriggio. Talvolta si univa anche Paolo a loro, ma aveva la sensazione di recitare lo scomodo ruolo del terzo incomodo.
P. ci aveva riflettuto a lungo, poi si era decisa a metterlo in guardia da Yuri. Secondo Paolo la sua amicizia aveva un secondo fine, ché lui per certe cose aveva uno spiccato sesto senso. Andrea non voleva credergli, negava potesse avere un altro tipo di interesse per lui. Yuri aveva la fama di essere un gran donnaiolo, come poteva essere?! P. scuoteva la testa rassegnata.
I sospetti di Paolo si rivelarono fondati, purtroppo per Andrea. Fabrizio prese ogni giorno a consegnargli un messaggio di suo fratello, alla fine delle lezioni.
“Ha messo gli occhi su di te, te lo dicevo io! Testardo che non sei altro, si capiva benissimo!” lo rimproverò P.
“Quindi sono proprio stupido, eh?  Siamo solo amici, te l’ho detto, come con te...!”
“Tu non capisci un accidenti! Lui non è me, cretino, e poi lui è più grande di noi!”
“E questo che c’entra?”
“Che potresti finire nei guai! Ti ritroverai a letto con lui senza neppure rendertene conto, stupido che non sei altro! Sei talmente ingenuo da farmi pena!”
“Finiscila! Non sono mica così sprovveduto!” ribatteva Andrea. Stava iniziando a perdere la pazienza, poi si accorse degli occhi che aveva difronte. Gli occhi disarmanti e colmi di dolcezza della ragazza che
La ragazza che gli stava davanti si era scusata per avergli parlato con quel tono tanto duro, e lui di rimando le aveva chiesto perdono per aver perso le staffe. Era la prima volta che alzava la voce con P.
“L’amicizia con Yuri è diversa dalla nostra, lo dico per il tuo bene. Non voglio che ti accada niente, non me lo perdonerei mai. Tra voi non può esserci solo amicizia. Da parte sua, almeno, no...”

                                                *                *                *










“Alle medie le ragazze non le guardavamo nemmeno. Eravamo sempre troppo presi dal giocare a calcio nel giardino della scuola durante la ricreazione per accorgerci di loro. Paolo una volta si è ritrovato una lettera con una busta rosa infilata nello zaino. Era la dichiarazione d’amore di una nostra compagna di classe, solo che la missiva era anonima e non abbiamo mai scoperto chi fosse l’autrice” raccontava Andrea a Fabrizio, mentre osservava da lontano l’amico parlare con una ragazza.
“E’ un bel ragazzo, non ci sono dubbi. Piace a molte studentesse di questo liceo. Non hai notato che se lo mangiano con gli occhi ogni volta lo incrociano per i corridoi dell’istituto. Se solo volesse avrebbe molto successo con le donne, proprio come mio fratello, non credi?” sorrise in modo strano, un po’ ambiguo.
“Cosa vuoi che ne sappia io” gli aveva risposto Andrea. Fabrizio aveva sorriso con un’espressione divertita che non era piaciuta molto ad Andrea. A cosa voleva alludere con quel sorrisetto sarcastico? Dava sempre l’impressione di sapere molte cose su di lui, su Paolo, su Yuri. Era un tipo alquanto sveglio a cui non si poteva nasconder niente, forse neanche i soli pensieri. Aveva un ottimo spirito d’osservazione, faceva invidia. Non si conoscevano da molto, eppure già aveva intuito che c’era un legame particolare che univa lui e Paolo. Dove voleva arrivare? Eppure non gli sembrava volesse sfotterli. Aveva un’aria piuttosto compiaciuta quando parlava di lui e Paolo.
“Che cosa pensi di lui?” fu la domanda improvvisa, tra capo e collo, che colpì Andrea.
“In che senso?” chiese stupito.
“Beh, siete molto amici...”
Erano amici. Solo amici. Nonostante tutto quello che stava succedendo all’amico, nonostante i suoi gusti sessuali ambigui, Paolo rimaneva il suo migliore amico. Anche adesso lo era ancora. Niente e nessuno avrebbe mai spezzato quel filo invisibile che li univa da tanti anni.
“Siamo cresciuti insieme. E’ sempre stato il mio migliore amico. Invidio il suo carattere così deciso, io sono proprio il suo contrario e dopo l’incidente penso di essere anche peggiorato. Sono sempre indeciso, su tutto, e cambio idea ogni cinque minuti. Non sono per nulla un tipo coerente. Paolo per me rappresenta la stabilità nella mia vita. Chissà magari a te sembrerà esagerato, ma in più di un’occasione il suo sostegno mi ha dato la forza per andare avanti. Siamo molto amici, è vero, per questo non l’abbandonerei mai qualsiasi cosa decida di fare. Rispetto ogni scelta dalla sua vita. Da me avrà sempre appoggio. Non lo tradirei  e soprattutto non troncherei la nostra amicizia neanche se dovesse essere attratto fisicamente da me. pensa pure che io sia una persona strana o che anch’io sia come lui, non m’importa...”
“Io farei la stessa cosa. Anch’io mi comporterei così se dovesse succedere al mio migliore amico o... a mio fratello...”
Andrea aveva capito. In realtà già da tempo aveva capito come stavano le cose. Spesso si chiedeva cosa c’entrasse lui con il loro mondo. Il mondo di Paolo e di Yur
“Dai, muoviamoci ad entrare altrimenti chiudono il cancello ” gli disse, dandogli una pacca sulla spalla. Andrea gli sorrise, aveva trovato un buon amico. Il primo amico, dopo Paolo.
Fece scivolare nella mano di Andrea un bigliettino assieme ai soldi per l’hamburger che aveva ordinato. Era un bigliettino piegato in quattro parti.
“Vieni stasera, mi raccomando” gli bisbigliò Fabrizio.






Era arcistufo di quel postino che anche dopo aver lasciato il liceo continuava a recapitargli i messaggi di Yuri. Per orgoglio rispose con un: “Non verrò, diglielo!”
Si rendeva conto di quanto Paolo avesse avuto ragione, però
Si sentì confuso. I suoi sentimenti erano contrastanti. Da un lato ne aveva le palle piene di quello Yuri, mentre dall’altro non se la sentiva di respingerlo. Non capiva, per l’ennesima volta, cosa davvero pensasse di chi aveva accanto. Non sapeva cosa provava. Sì disprezzò per la sua stupida ingenuità e per la sua
La sua amicizia con Yuri era importante. Con Yuri stava dannatamente bene. Quando erano da soli e parlavano, parlavano, parlavano. Che diavolo gli stava succedendo? Si sentiva disperato. Aveva una gran voglia di gettarsi a terra in ginocchio e di sbattere la testa contro il pavimento. Ma non poteva, stava lavorando. Il locale era anche piuttosto affollato. Gettò il biglietto di Yuri nel cestino sotto alla sua cassa. Serviva i clienti sbadatamente, la sua testa era altrove. Nel tardo pomeriggio, a fine turno, recuperò il messaggio tra le cartacce. Salutò tutti e corse al motorino. Aprì il foglietto con le mani che gli tremavano. Riconobbe la calligrafia di Yuri. Diceva semplicemente: “Arriva presto. Ti aspetto in prima fila!” Era firmato “tuo Yu”. Sentì un tuffo al cuore. Come poteva negare di sentirsi stramaledettissimamente felice?!
Fu puntuale al concerto. E quella sera era presente anche Paolo accanto a lui. Yuri appariva visibilmente turbato dalla presenza dell’altro ragazzo.
“Ehi, Yuri” gli bisbigliò Irene in un orecchio, al termine della performance, “se tutto va bene stasera te ne fai due in una volta sola!”
“Smettila, scema. Fosse così semplice. Andrea mi piace sul serio, non voglio affrettare troppo i tempi. Non posso permettermi errori” le disse, e avrebbe voluto aggiungere: ”Lui è troppo importante per me!”
Paolo insisteva per andarsene, ma Andrea vedeva soltanto Yuri.
“Scusa, io rimango un po’. Ti rompe?”
“Fa’ come ti pare, buonanotte allora!” rispose seccato. Certo che gli rompeva, che razza di domande idiote gli faceva?! Lo salutò senza neppure guardarlo in faccia. Era offeso. Punto.
Sarebbe stato ancora in tempo per raggiungerlo, Andrea, ma non lo fece. Rimase ad aspettare che Yuri uscisse dal backstage. Rimase ad aspettarlo, chissà perché.
Yuri arrivò sorridendo. “Bevi qualcosa?” domandò.
“No, io... vorrei parlarti...”
“Ho capito. Aspetta prendo la mia roba e ce ne andiamo.”
Lo aspettò fuori dal locale, vicino all’uscita di sicurezza. Era andato al Noise assieme a Paolo, in due sul suo motorino, e adesso lui era rimasto a piedi quindi
“Avrei bisogno di un passaggio” ammise timidamente quando Yuri lo raggiunse.
“Vieni da me, ti va?”
Quella domanda lo intimoriva. Che intenzioni aveva? Vedendolo spaventato, Yuri tentò di rassicurarlo. E il suo sorriso e le sue parole gli parvero sincere.
“Non devi pensare cose strane sul mio conto. E comunque so bene che tu non sei...ehm” si schiarì la voce, imbarazzato, “come me” concluse.
Decise di fidarsi di lui. Yuri dal canto suo era pronto a prendere tempo. Avrebbe aspettato. Lo





avrebbe aspettato. Certo, non avrebbe ottenuto il suo scopo con la forza, mai e poi mai, se lo promise e ripromise.

Il giorno dopo Paolo gli tenne il muso e così fece per una settimana. Qualcosa in Andrea stava cambiando. Il ragazzo si rendeva conto di ciò che provava, ma non riusciva ad ammetterlo. Neanche a sé stesso. Eppure sapeva. Sapeva bene cosa provava.
“Sei stato a casa sua, eh?!”
“E allora?”
“Ti piace, cazzo! Lui ti piace!”
“Sei proprio fissato! E’ semplicemente un amico, lo vuoi capire, mi hai rotto i coglioni!”
“Un amico, sì, certo...”
“Pensala come vuoi, ti dico che è così. E ora ti saluto.”
“Perché... perché lui sì?! Lui ti va bene anche se è un maschio... mentre io...! Io... sono costretto a...!”
Non gli piacevano quei discorsi. Andrea gli voltò le spalle e se ne andò.
Una volta giunto a casa prese il telefono per chiamare P. Come se niente fosse le parlò tranquillamente chiedendole di uscire sabato.
“Ti piacciono i ragazzi” sostenne lei. Si chiedeva quanto sarebbe durata quella farsa. Paolo ne aveva le palle piene di quella storia. Era sul punto di scoppiare.
“Facciamola finita! Smettila di fare l’ipocrita, Andrea.”
“P., ma che ti prende?”
“Finiscila! Ma con chi cazzo credi di parlare?! Chi diavolo è P., me lo spieghi?!”
“Paolo? Ma che cavolo vuoi? Fammi parlare con P.!”
“Tu sei in paranoia piena! Vuoi farmi diventare matto! Io sono P., e tu lo sai benissimo! Perché devo assumere l’identità di una ragazza per farti stare con la coscienza in pace e tu poi... vai ad innamorarti di un uomo?! Per troppo tempo è andata avanti questa puttanata, ma ora basta!”
“Io non sono frocio! E tu mi fai solamente schifo!”
“Frocio...? E ti faccio schifo... bene, dunque tronchiamo qui la nostra amicizia. Credo sia meglio per entrambi” disse Paolo. E mentre sosteneva questo era convinto che l’indomani Andrea si sarebbe rifatto vivo per telefono o di persona. Lo conosceva molto bene, troppo bene. Era inutile discutere con lui, cercare di spiegargli le cose, farlo ragionare. Andrea si ostinava a non voler capire. Vedeva solo quello che voleva vedere. Chissà se davvero erano stati quei tre mesi di coma a ridurlo così oppure lo era sempre stato.
“Sei svitato per natura, vero?”
“Non saprei... Allora, ci vediamo sabato?”
“Sei incredibile...” ammise rassegnato l’altro.
Andrea riattaccò. Si lasciò cadere sulla poltrona in pelle del salotto. Tra poco sarebbe rientrata sua madre. Aveva i nervi a pezzi. Che diavolo aveva? Che diavolo aveva detto a Paolo? E a P.? Che razza di stupido era mai? Stava peggiorando, dannazione!
Chi diavolo era P.?
Vuoto totale.






Le dieci. Ormai era arrivato a Rimini. Che tristezza Rimini in inverno! Si diresse sul lungomare. Parcheggiò la macchina e scese. Faceva un freddo cane. Che ci faceva lì? Be’, sempre meglio lì che a casa sua. In quel momento il suo cellulare prese a squillare. Guardò distrattamente il numero che appariva sul display, tanto sapeva di chi si trattava. Al diavolo! Non avrebbe risposto. Non quella notte!
Il freddo pungente di quella serata sembrava niente in confronto ai brividi provati anni prima quando si rese conto di come stavano realmente le cose....


Stava iniziando lentamente a prendere coscienza di sé e del suo imperdonabile egoismo. Si era comportato in modo orribile nei confronti di quello che considerava da sempre il suo migliore amico. Adesso lo capiva. E capiva anche qualche altra cosa. L’egoismo verso Paolo e quello verso sé stesso. L’ egoismo che aveva sempre ignorato? Quell’egoismo, di convenienza, che lo portava a rinnegare l’eventualità che potesse provare dei sentimenti proibiti. Sentimenti d’amore verso qualcuno del suo stesso sesso. Stava forse rinnegando, lo aveva sempre fatto, la sua natura omosessuale?
Aveva praticamente “costretto” Paolo a travestirsi da donna per ben tre anni, ad incontrarsi in un’altra città, e a fingere di essere una ragazza anche al telefono. Tutto questo perché non accettava il fatto di amare un uomo? Si era addirittura autoconvinto si trattasse di due persone distinte ed aveva finito per crederlo sul serio. Davvero l’aveva creduta la verità? Davvero?
Che aveva fatto a Paolo? Alla persona che sempre l’aveva rispettato? All’amico che, anche se innamorato di lui, mai aveva osato sfiorarlo. Mai aveva tentato di fargli cambiare idea. Era stato l’amico migliore che si potesse avere anche nelle situazioni più difficili. Paolo aveva un grande rispetto di lui. Mentre lui aveva crudelmente, stupidamente, giocato con i suoi sentimenti. Si sentiva la persona peggiore del mondo.

Paolo si era da tempo arreso difronte all’ostinazione di Andrea che dichiarava di non essere assolutamente attratto dai ragazzi. Si era anche visto pronto ad accettare il fatto che un giorno si sarebbe messo con una ragazza. Avrebbe incassato il colpo in silenzio e avrebbe sofferto, da matti, certo, ma avrebbero comunque continuato a frequentarsi come amici. Amici. Gli sarebbe bastato. Il suo caro Andrea si sarebbe innamorato di una ragazza, e lui l’avrebbe accettato. Di una ragazza, certo, ma adesso... Si era innamorato di un ragazzo? Cazzo, un uomo! Allora che senso avevano tutti quei suoi discorsi sul siamo entrambi maschi , gli uomini mi fanno schifo, non sono mica finocchio! Se si era innamorato di Yuri allora sarebbe potuto andare bene anche lui! Che cavolo aveva di tanto diverso quello Yuri?! Non capiva. Questo non l’accettava. No, cazzo, non lo capiva. Yuri era un tipo dall’aspetto così virile, non somigliava per niente ad una femmina... che fosse questo? Pensieri contorti si aggrovigliavano nella sua testa. Per la prima volta Paolo provò odio per l’amico. Come poteva preferirgli un nuovo arrivato? Lui era un suo amico d’infanzia. Si conoscevano da tanti anni. Avevano condiviso tante cose insieme. Insomma, lui lo conosceva meglio di chiunque altro... ecco perché, semmai, avrebbe dovuto essere lui il suo ragazzo. La rabbia non lo faceva più ragionare. Non avrebbe permesso a nessun altro uomo di toccare il suo Andrea.






E se Andrea avesse continuato a rifiutarlo, allora lui sarebbe arrivato anche a portargli via quello che considerava l’elemento di disturbo.
Calcolò tutto, fin nei minimi dettagli. Piano piano, giorno dopo giorno, iniziò a stringere un’amicizia sempre più intima con Yuri. Stava riuscendo nel suo intento di allontanarlo da Yuri. Alla fine la cosa gli sfuggi un po’ di mano e si ritrovò innamorato lui stesso di Yuri. Quest’ultimo si trovava perfettamente a suo agio in compagnia di Paolo. Presto scoprirono di essere attratti l’uno dall’altro. Paolo stava cambiando. L’amore che provava per Yuri lo stava cambiando.
Una sera, ad un concerto degli Y.M.I.F., Andrea prese a muso duro Paolo. Non si vedevano da qualche settimana. In breve tempo tante cose sembravo essere cambiate. Andrea aveva la sensazione di aver perso sia Yuri che Paolo. Si sentiva dannatamente solo.
“Mi hai portato via qualcuno a cui tenevo molto!” sbottò in tono accusatorio Andrea, rivolgendosi all’amico.
“L’hai capito un po’ tardi di amarlo, non credi?” rise Paolo. “Ti ho forse soffiato il ragazzo?” lo schernì. Avvertì uno strano piacere nel prendersi gioco di chi non aveva mai voluto saperne di lui. Era davvero cambiato fino a questo punto? Stare con Yuri l’aveva reso così meschino? Per un attimo pensò che avrebbe potuto anche arrivare ad umiliarlo e che probabilmente ci avrebbe goduto.
“Sei uno stronzo!”
“Io?! Mi hai preso tanto tu per il culo, e adesso te la prendi perché ti sfotto un po’ io? Sei il solito egoista.”
Egoista. Quante volte si era sentito dire quella parola. Persino da sé stesso. Ed era la verità.
“L’hai fatto apposta!”
“Scusa ma perché ti scaldi tanto? E poi... credevo non ti interessassero gli uomini!”
“Sei proprio un bastardo!”
“Un bastardo? E’ sempre poco nei tuoi confronti, sai? Cosa ti aspettavi dopo il modo in cui mi hai trattato?!”
Andrea non trovò parole per replicare e smentire le accuse dell’amico. Paolo aveva perfettamente ragione. Era lui ad essere nel torto, da sempre, in torto marcio.
“Ci vediamo, Andre’!” lo salutò, dopodiché raggiunse il banco del bar per ordinare da bere.
Andrea rimase immobile come un imbecille. Fu preso dal rimorso. Poi, un vuoto enorme gli si aprì nel petto. Sentì tutto lo stomaco sottosopra. I pensieri in subbuglio. Ebbe un fortissimo senso di nausea. Vomitò nel bagno e si maledì per lo stronzo che era sempre stato.
Quando finito il concerto vide Yuri che raggiungeva tutto sorridente Paolo, capì di aver perso qualcosa di molto importante. La disperazione si stava impadronendo di lui. L’assurda idea di cercare il conforto di P. gli balenò in testa. Che cosa stupida! Si voltò verso l’uscita per andarsene, ma  si sentì afferrare per un braccio.
“Te ne vai già? E senza salutare neanche?” gli domando Irene, trattenendolo.
“Ah, ciao... Be’, domani mi alzo alle sei e quindi”
“Non saluti nemmeno Yu?”
“No...”
“Ma avete litigato? Che è successo?” sembrò preoccuparsi la ragazza.







Andrea negò, poi la baciò sulle guance ed uscì.
L’aria pungente della sera lo infastidiva, ma forse non si trattava solo dell’aria. Alcuni ragazzini gli chiesero una sigaretta.
“Mi spiace, non fumo...”
Si mise il casco e salì in motorino. I suoi pensieri caddero prima su P. e poi su Yuri. Si era meritato tutto questo, sì, se l’era meritato.
Dormì malissimo. Sognò P. che faceva sesso con Yuri, e Paolo che tentava di portare a letto lui
...o succedeva il contrario?


Eravamo in maggio e le sere iniziavano a farsi meno fredde. Spesso usciva a bere una birra, il suo giorno di riposo, con Fabrizio, ma evitava sempre di chiedergli notizie del fratello.
Per quanto riguardava Paolo, non lo sentiva né lo vedeva da più di un mese. Dalla sera del litigio al concerto Paolo non si era più fatto vivo, ma forse era meglio così. C’era bisogno di tempo, un po’ di tempo, perché le cose tra loro si aggiustassero. Forse non sarebbero mai più tornate come prima...
Con Andrea e Fabrizio qualche volta usciva anche Irene, ma il suo atteggiamento innervosiva Andrea. Ci provava con lui, spudoratamente, lo provocava, lo scherniva per la sua presunta omosessualità. Lei aveva quattro anni più di lui, ne aveva diciannove, e sembrava sapere molto bene come prendersi gioco dei ragazzini. Lo sbeffeggiava per essersi fatto portare via Yuri dal suo migliore amico. Andrea s’infuriava, negando a priori di provare qualcosa per il fratello di Fabrizio. Nutriva un odio profondo per quella perfida ragazza che si divertiva a sfotterlo in continuazione. Meditava sempre più di fargliela pagare un giorno a quella faccia da schiaffi. Se ne sarebbe pentita amaramente.

I ricordi, tutti rivissuti in quella fredda sera, lo stavano sopraffacendo. Si sentiva ormai prigioniero di una fittissima rete di sentimenti ed emozioni. Emozioni, rancori, e sentimenti seppelliti da anni e che in quella notte stellata tornavano allo scoperto. Si sentiva soffocare dall’intensità di certi ricordi.
Di nuovo lo squillo del cellulare. Di nuovo quel numero sul display. Un tuffo al cuore. Un misto tra gioia e fastidio. Odio e amore. Cedette...
“Lasciami in pace!” rispose. “Almeno stanotte, lasciami solo con i miei pensieri, fammi credere di non aver sbagliato di nuovo...!” disse.
Patetico, il suono della sua voce, gli sembrava davvero patetico. Lanciò un’occhiata triste verso il mare, a pochi metri da lui.
“Fammi credere di aver fatto la scelta giusta. Fammi illudere... “ aggiunse, con un tono ancor più patetico.
Il mare così scuro. Quasi avere la voglia di immergercisi e scomparire tra le onde gelide.
“Scusami, scusami se stanotte non torno. Ho bisogno di rimanere un po’ da solo, di ricordare, di cercar di capire... Voglio restare da solo con me stesso... Con me soltanto...”
[Questi sono solo i primi 3 cap. tutti insieme splinder non me li postava... ç_ç]



postato da: Aphrodia alle ore 17:21 | Permalink | commenti
categoria:racconti, il bambino che
sabato, 03 febbraio 2007
   

                                                           Capitolo quarto


Quando decisi di lasciare la scuola mia madre non la prese troppo bene, ma poi si rassegnò all’evidenza. Insomma, non ero proprio in grado di frequentare il liceo. Avevo notevoli difficoltà a ricordare tutto ciò che studiavo. Passavo serate, fino a tarda notte, sui libri, ma al mattino ricordavo poco o niente. La cosa che più mi preoccupava era che avevo vuoti di memoria anche nella vita di tutti i giorni. Non solo non ricordavo bene fatti successi prima di esser stato in coma, ma spesso avevo dei dubbi anche su quelli più recenti. Spesso mi capitava di confondere le cose realmente accadute con quelle magari soltanto immaginate. Spesso chiedevo conferma a Paolo. La cosa mi pesava enormemente, ma lui continuava a ripetermi di non dargli troppo importanza. Era lui il mio punto di riferimento, come d’altronde era sempre stato fin da piccoli.
Tornando a casa mi cadde lo sguardo sui libri di testo delle superiori. Che spreco! pensai. Così decisi di fare un salto alla libreria che teneva testi scolastici usati. Misi i soldi della vendita sul tavolo davanti a mia madre. Lei mi guardò con uno sguardo interrogativo.
“Ho rivenduto i libri, almeno così riprendiamo parte delle spese. Mi dispiace per l’iscrizione... quella nessuno ce la rimborserà.”
“Non importa” rispose con sguardo assente la donna. Fu tutto quello che disse, neanche un grazie. L’avevo comunque immaginato, be’ pazienza. Ultimamente non parlavamo quasi per niente. Mai che lei mi domandasse come mi trovavo al lavoro o che si interessasse di informarsi sulle mie amicizie. Mai niente. Niente di niente.
Una sera, mentre stavo lavando i piatti, perso nei miei pensieri mi rivolse la parola. Ruppe quell’odioso silenzio la sua triste voce. Ma quello che udirono le mie orecchie non mi piacque affatto. Mi chiedeva di passare il giorno di Natale con lei a casa dei Morini, la famiglia presso cui lavorava come collaboratrice domestica tre volte la settimana. Il giorno di





Natale con dei perfetti sconosciuti... ma perché?! La cosa non mi andava per niente, ma per non darle un dispiacere non riuscii a rifiutare la proposta. Avrei tanto desiderato passare il Natale da solo con lei, invece
Invece mi vedevo costretto a trascorrerlo con degli estranei.
Il 25 dicembre mia madre uscì di casa molto presto per aiutare i coniugi Morini a preparare il pranzo. Mentre mi dirigevo verso la loro abitazione fui tentato più volte di dargli buca, però poi pensavo allo sguardo dispiaciuto della mamma e proseguivo. Faceva maledettamente freddo. Io e Paolo ci eravamo sentiti per telefono un’ora prima. Io ero alquanto nervoso al pensiero di conoscere quella gente. Erano molto ricchi e questo mi faceva sentire ancora più a disagio. Paolo aveva cercato invano di tranquillizzarmi.
“Ci vediamo più tardi?” gli avevo chiesto speranzoso.
“D’accordo. Magari verso le quattro... Così me la filo dalla tavolata dei parenti pronti a giocare alla solita tombola natalizia! A più tardi!”
Ero purtroppo giunto a destinazione. Le tredici in punto. Suonai il campanello con l’indice tremante.
“Ciao, benvenuto!” mi accolse calorosamente un giovane dal volto sorridente. Sembrava il sorriso stampato su un depliant pubblicitario di offerte di qualche negozio. Pochi istanti per identificarlo: quello era il tizio che avevo visto tempo prima parlare con mia madre vicino casa nostra!
Chi diavolo era? In un attimo tutto mi apparì chiaro davanti. Eccolo lì: quello era il figlio dei Morini. E mia madre che ne aveva sempre parlato così “schifosamente” bene. Eccolo lì! Faccia da giovane perfettamente integrato nella società moderna. Uomo in carriera dal sorriso smagliante alla Durbans, a trentadue denti. Eccolo lì. Bello e ricco.
“Prego, entra. Io sono Giorgio, piacere” si presentò stringendomi la mano.
“Andrea, piacere”.
Il figlio dei Morini. Quello fu il nostro primo incontro. Per me una botta tra capo e collo. Una pugnalata alla schiena. E poi scoprii che mia madre lo frequentava già da qualche mese. Un ragazzo di appena venticinque anni. Dio, mia madre se la faceva con uno che aveva la stessa età di Yuri! Il mondo che mi si sgretolava sotto i piedi. E la voglia irrefrenabile di scoppiare a piangere davanti alla tomba di mio padre.
Avevo provato e riprovato nella mente la scusa che stavo poco bene e preferivo tornare a casa. Dopo aver mangiato tutti quei gustosi manicaretti preparati da mia madre e dalla signora Morini mi decisi ad aprir bocca, ma riuscii solo a dire che me ne andavo perché avevo fissato di vedermi con un amico. Praticamente finii per dirgli la pura e semplice verità. Li ringraziai e feci per andarmene. Giorgio mi accompagnò alla porta.
“Mi ha fatto piacere conoscerti. Ciao, a presto” mi salutò sorridendo.
“Ciao” risposi, freddamente. Potevo fingere e rispondergli con un: “anche a me a fatto piacere” recitato da bravo bambino, ma proprio non mi uscì dalla bocca una puttanata simile!
Ricambiai il suo sorriso con un mezzo sorriso forzato e me ne andai.
Paolo mi stava aspettando alla piazzetta vicino casa nostra, seduto sulla sella del suo motorino. Aveva lo sguardo interrogatorio che chiedeva “com’è andata?”
Scossi la testa, non avevo nessuna voglia di parlarne. Gli feci cenno di andare. Tolsi il







lucchetto al mio scooter e gli dissi di seguirmi.
“Aspetta, dove andiamo? Non ho molta benzina...”
“Non importa, non è molto lontano”
Dovevo andare assolutamente in un posto. Volevo passare il Natale con una persona!
Fermai il motorino davanti al cancello chiuso del cimitero.
“E’ chiuso. E’ logico, il giorno di Natale.”
“Lo immaginavo, ma non importa. Scavalchiamo” sostenni deciso.
“Eh?! Sei matto! Se ci beccano passeremo dei guai, non fare lo stupido.”
“E’ Natale, il custode sarà a festeggiare con tutta la famiglia. Chi vuoi che ci veda, dai, non abbandonarmi adesso!”
Paolo tentò inutilmente di convincermi a lasciar perdere. Ero fermamente deciso a trascorrere il Natale con mio padre e l’avrei fatto.
“Ma cos’è successo  dai Morini?”
“Mia madre... se la fa con uno che ha quasi la metà dei suoi anni!” gli confidai  tristemente.
“Cosa? E chi sarebbe?”
“Il figlio dei coniugi Morini. Dio, mi vien da vomitare se penso a quel tipo con la faccia da fotoromanzo e col sorriso da ebete. Spero che mio papà non veda mai come si è rincretinita la mamma. E’ veramente squallida la cosa...”
“Non starai esagerando?”
Non risposi. Eravamo ormai al di là del muro di cinta del camposanto. Avevamo scavalcato da un punto dove il muro era in parte crollato e quindi il passaggio agli intrusi era facilitato.
Era un paesaggio alquanto inquietante quello che si apriva davanti ai nostri occhi. Tutti quei lumini, la notte di Natale , potevano però sembrare tante candele che addobbavano quell’enorme distesa di terra. Questo pensiero mi rasserenò. Paolo aveva una gran fifa, invece. Ripeteva quanto quel lugubre scenario gli ricordasse la sceneggiatura di un fumetto horror stile Dylan Dog.
Quando mi trovai difronte alla tomba di mio padre, non esitai ad inginocchiarmi davanti alla fredda lapide di marmo. Paolo rimase più indietro di qualche passo. Non riuscii a trattenere le lacrime. Presi a singhiozzare, rumorosamente, senza riuscire a smettere.
“Potrebbero sentirci...” disse Paolo. Ma eravamo lontani dalla casa del guardiano.
Un rumore di foglie calpestate fece cacciare un urlo di terrore a Paolo.
“Ma sei impazzito!” gridai. Voltandomi in direzione del rumore scorsi un gatto.
“Un gatto...?! Dio, sono morto di paura!”
“Scemo!” lo rimproverai. “Mica avrai creduto si trattasse di uno zombi, spero!”
“Ma lo vedi in che razza di posto siamo?! Dove va quel gatto?”
Lo seguimmo con lo sguardo fino a vederlo entrare dentro un loculo vuoto, nella galleria alle nostre spalle. Incuriosito andai a vedere, seguito da Paolo ancora tremante per lo spavento. Illuminai l’interno con la torcia. Vidi qualcosa che mi apparve così bello da farmi invidia: un’allegra famigliola riunita insieme il giorno di Natale.
“Ha partorito i cuccioli qua dentro, vieni a vedere!” feci cenno a  Paolo di raggiungermi.
“Moriranno di freddo, dobbiamo avvertire il custode!”
La scelta sul da farsi ci fece esitare. Poi, prendemmo la decisione che ci sembrò più saggia.






Eravamo pronti a rischiare, andando incontro alle conseguenze, rivelando la nostra presenza lì, ma avremmo salvato quei gattini da morte certa per assideramento.
La fortuna fu dalla nostra parte. Non ci andò male. Il custode mi riconobbe e ci ospitò in casa. Ci offrirono del cioccolato caldo per riscaldarci. Guardando i gattini in una cesta vicino al fuoco del camino non potevo fare a meno di provare una grande gioia. Tornammo a casa verso l’ora di cena. Congelati , col motorino. Il giorno dopo eravamo entrambi a letto con l’influenza.
La febbre non voleva saperne di scendere.  Ero in pensiero per i micini. Avrei voluto sapere come stavano, ma non potevo muovermi da letto. Rimasi malato per una settimana. Paolo guarì prima di me e venne a trovarmi, un pomeriggio che mia madre era al lavoro.
Non so bene perché ma gli ricordai di quella sera che litigammo al concerto di Yuri. Quando litigammo per Yuri. Quando detti l’ennesima riprova del mio smodato, incurabile, egoismo. Gli chiesi scusa, come del resto avevo fatto circa tre mesi dopo, in agosto, quando ci eravamo incontrati per caso vicino casa nostra. Paolo non mi serbava rancore. Mi confidò di essergli mancato per tutto quel tempo che non ci eravamo visti, solo che, per non peggiorare la situazione aveva aspettato che fossi io a rifarmi vivo. Del resto avevo sbagliato io. Come sempre.
“Come va con Yuri?” mi feci coraggio a chiedergli.
“Abbastanza bene” rispose un po’ vago il ragazzo.
“Come abbastanza?”
“Ultimamente non ci vediamo molto spesso per i suoi impegni di lavoro. Stanno chiusi in studio di registrazione per interi pomeriggi! Ad ogni modo almeno posso essere me stesso, non devo nascondermi dietro le sembianze di una ragazza. A lui vado bene con questo aspetto, l’aspetto di un ragazzo. Per me questo è già molto” sostenne.
“Sono contento per te...”
Paolo mi sorrise malizioso. Era uno sguardo che detestavo. Era lo sguardo con cui mi guardava sempre la Vannini. Uno sguardo che mi incuteva timore. Distolsi gli occhi dai suoi.
“Sai, io credo che dovrei fartela pagare per tutto quello che mi hai fatto” sostenne in tono scherzoso, almeno credo. “Adesso, sei così privo di difese... Stai già a letto, sarebbe uno scherzo immobilizzarti e approfittarmi di te!” rise.
“Piantala di dire stronzate!”
Paolo continuava a fissarmi con uno sguardo penetrante. Uno sguardo che non ero in grado di sostenere. Uno sguardo al quale mi piegavo.
“Be’, è meglio che me ne vada. Se rimango ancora un minuto di più potrei veramente saltarti addosso!” dichiarò con pungente ironia.
Davvero scherzava? Ma fino a che punto...?
Era seduto sul letto di fianco a me. La sua vicinanza iniziava a turbarmi. Come sempre non riuscivo a capire fino in fondo quello che davvero provavo per lui.
“Aspetta, ti accompagno alla porta.”
Feci per alzarmi dal letto, ma la malattia mi aveva indebolito e le gambe non mi ressero. La testa prese a girarmi vertiginosamente.
“Scusa, non ce la faccio a...” riuscii a dire con un filo di voce, mentre perdevo i sensi tra







quelle braccia che invano tentavano di sorreggermi.
Bianco, soltanto bianco. E la voce di Paolo che mi chiamava e a cui non riuscivo a rispondere.
“Vado a prenderti dello zucchero!” disse, precipitandosi in cucina.
Tornò con un bicchiere d’acqua zuccherata.
“Bevi”  disse, poggiandomi il bicchiere alle labbra. “Va meglio?” mi chiese in tono preoccupato. 
“Meglio...” bisbigliai.
“Stai riprendendo colore... Mettiti sul letto, aiutati anche tu... da solo non ce la faccio... sei pesante!”
Mi accompagnò sul letto, facendomi sdraiare, e mi sollevò i piedi, per far riprendere la circolazione sanguigna.
“Inizi a sentirti meglio?”
“Sì, scusa...”
“Non devi alzarti, sei rimasto a letto per giorni... è normale che il tuo fisico si sia indebolito... Aspetterò che rientri tua madre, non posso lasciarti così.”
“Avvicinati...” sussurrai, facendogli cenno con la mano di venirmi accanto. Si sdraiò al mio fianco e avvicinò la sua faccia alla mia.
“Che c’è?” mi domandò.
“Grazie di tutto” risposi, appoggiando la testa sulla sua spalla.


Adesso so che quei momenti non torneranno mai più. Eravamo così vicini. Eppure ancora adesso mi domando se provassi qualcosa di simile all’amore per quel ragazzo che sempre mi era stato accanto, soprattutto nei momenti difficili. Mi mostravo forte, davanti agli altri, ma non lo ero affatto. Ero pieno di incertezze, pieno di paure, e questo Paolo lo sapeva benissimo. L’ avevo sempre ammirato per la sua determinazione. Sembrava un ragazzino tanto indifeso, ma in realtà era molto più forte di me. Il debole ero io, non Paolo.


Al fast food avevo fatto delle nuove amicizie. L’orizzonte delle mie conoscenze si stava allargando. Incredibilmente ciò stupiva anche me. Il mio mondo non era più solo e soltanto Paolo.
Già, Paolo...
Paolo aveva preso ad uscire con Yuri. La cosa mi rodeva un po’ ad esser sincero.
“L’ultimo dell’anno gli Y.M.I.F. terranno un concerto al Noise, verrai anche tu mi auguro. Sai, Yuri mi ha pregato di insistere, nel caso tu non avessi mostrato l’intenzione di venirci” sostenne Paolo.
“Yuri?”  chiesi stupito.
Che sorpresa, non me l’aspettavo proprio. Non ci vedevamo da tantissimo. C’ero rimasto molto male quando avevo saputo che usciva con Paolo. E poi avevo litigato con Paolo, a causa di Yuri. E non lo vedevo da quel concerto.






A rivederla col senno di poi, penso sia stato davvero un bene aver trascorso quell’ultimo dell’anno tutti insieme.
Il Noise strapieno. Tutto esaurito. Ragazzi scatenati sotto il palco. E Irene bellissima...!  Quella sera non potetti non notarlo. Era meravigliosa con indosso quell’abito attillato di seta nera. Non l’avevo mai vista sotto quella luce. Era una ragazza che faceva perdere la testa a molti... E quella ragazza dopo il concerto si appartò con me.
Stringevamo due cocktail in mano. Brindammo. Mancavano ancora quaranta minuti a mezzanotte. Salimmo sul tetto del Noise. Da lì potevamo ammirare tutta la città illuminata a festa.
“Ce l’hai ancora con Yuri?”
“No, non ce l’ho mai avuta con lui. E smettila con ‘sta storia!”
“Guarda laggiù, Andrea. Da qui la vista è bellissima. Se mi buttassi adesso, nell’oscurità... non sarebbe bellissimo?!  Hai mai pensato di farla finita?”
“Cosa dici? Stai bene? Mi sembri strana più del solito, stasera...”
“Non dirmi che non ti è mai capitato di avere il desiderio di sparire per sempre?  Sei davvero soddisfatto della tua vita?”
“Irene... smettila di bere, e allontanati dalla ringhiera. Non sei in te, falla finita di dire stronzate!”
“Rispondimi...! Hai mai desiderato morire?”
“Sì...” mi vidi costretto a confessarle, alla fine. “Quando è morto mio padre... avrei voluto seguirlo. Gli volevo molto bene. Ho addirittura pensato che preferivo esser morto io... per  non lasciare sola mia madre. Sono certo che anche lei avrebbe preferito aver perso me piuttosto che lui...”
“Lo immaginavo... Comunque secondo me sbagli riguardo tua madre. Spesso mi chiedo perchè il destino mi ha portata fino a qui... Sai, io non sono nata in Italia. Sono stata adottata quand’ero molto piccola. Sono russa, di un paesino vicino Mosca. In realtà il mio vero nome è Irina, non l’avresti detto eh?”
“Sinceramente no, mi hai preso proprio alla sprovvista. Certo che i tuoi lineamenti, adesso che ci faccio caso, potrebbero sembrare di una ragazza dell’est europeo...”
“Allora lo facciamo insieme?”
“Eh? Ma cosa?”
“Buttarci giù!”
“Non scherzare, ora basta! E poi se ti butti da questa misera altezza potresti anche non morire sul colpo... Che faresti se dovessi rimanere paralizzata? Sei proprio scema, guarda...”
“Hai ragione, allora mi stai dicendo che devo trovarmi un edificio più alto?!”
“Ma no!” replicai.
Lei scoppiò a ridere. Buttò giù un altro sorso del cocktail.
“Smettila con quella roba! Dovete tornare sul palco per il conto alla rovescia e tu sei in condizioni pessime!” la rimproverai, trascinandola via dalla ringhiera.
Mi faceva paura. Temevo veramente che potesse gettarsi nel vuoto. Era ubriaca, non ragionava.
“Ma che diavolo ci fate quassù?!” tuonò la voce di Fabrizio alle nostre spalle. “Aspettiamo







soltanto te!” gridò portando via Irene per un braccio.
Lei si voltò indietro, verso di me, e sorrise. Un sorriso dolce che mai più mi rivolse.
Mezzanotte. Gli Y.M.I.F. stapparono lo spumante sul palco del Noise. Grida. Eravamo tutti ubriachi. Seguii Paolo e Yuri con lo sguardo e li vidi sparire nel backstage.
Irene tornò da me. Ci appartammo su un divanetto nel privè, lontano dagli sguardi dei fans. Per  la prima volta in vita mia un desiderio mai provato prima fece capolino nella mia testa: Avrei voluto toccarla, metterle le mani dappertutto! Irene mi piaceva, credo.
Mi piaceva o era tutto soltanto dettato dall’alcool che avevo in corpo?
Stava sopra di me. Ero eccitato come mai mi era successo. Avevamo bevuto davvero troppo. Irene mi si addormentò addosso. Mi lasciai andare e chiusi gli occhi. Il sonno prese il sopravvento anche su di me.



Era il giorno del mio sedicesimo compleanno. Non mi andava di festeggiare. Mi bastava vedere Paolo. Degli altri non m’importava poi molto. Lui era perfino disposto a vestire i panni di P., come regalo. Io risi e gli dissi che mi bastava stare in compagnia del mio migliore amico.
Da giorni ero ossessionato da qualcosa che non sapevo spiegarmi. Forse si trattava ancora di una forma di egoismo nei confronti di Paolo...
Avevo preso un giorno libero dal lavoro. Andammo a Bologna, col treno. Io e Paolo. Per la prima volta andai a Bologna assieme a Paolo, anziché con P.
Trascorremmo un pomeriggio divertente.
Al rientro a Ferrara comparve di nuovo quell’ossessione ricorrente. Guardavo Paolo e vedevo Paolo. P. non c’era, era come non ci fosse mai stata. C’era soltanto Paolo... Ed avevo paura.
La paura di perdere qualcosa. Qualcosa che per me era essenziale, da sempre.
“Non voglio perderti...” gli confidai, con tutto il coraggio che riuscii a trovare.
Paolo rimase sorpreso da quella richiesta inaspettata, poi mi sorrise.
“Non mi perderai, dovresti saperlo” asserì guardandomi dritto negli occhi. “Non dubitare sempre di me, non ne hai nessun motivo. Ti ho mai abbandonato? Direi di no... Ho sopportato tutte le tue crisi da donnetta isterica!”
“Che?! Donnetta isterica, io?! E tu allora quando t’ingelosivi per delle cazzate e mi tenevi il muso per giorni?! Donnetta?!”
“Calma, scherzavo, non alterarti. Io per te ci sarò sempre, quindi, per favore...”
L’abbracciai, all’improvviso. Rimase ammutolito. Era, forse, la mia ultima occasione.
Poggiai le mie labbra sulle sue. Fu un tocco lieve. Lui si ritrasse indietro. Aveva sul viso un’espressione sconvolta.
“Che ti prende? Cosa cavolo ti passa per la testa?!” chiese sbigottito Paolo.
“Scusa, pensavo... Ecco, volevo essere io il primo a... soltanto quello... prima che succedesse con qualcun altro...”
“Arrivi tardi! Dovevi pensarci prima, scemo! Io e Yuri stiamo insieme, anche se non ufficialmente, e quindi... Hai capito, no?”
“Fino a che punto...?!”






“Eh?”
“No, scusa, non mi riguarda!” mi affrettai a rimediare.
Che andavo dicendo? E comunque ormai avevo rovinato tutto. L’avevo immaginato tante di quelle volte, invece era andato tutto male. L’atmosfera se ne era andata a quel paese. A quel punto mi sarei volentieri seppellito sottoterra. Che figura vergognosa!
“Non puoi mica programmare questo genere di cose. Accadono da sé e basta.”
“Non dire altro. Non so cosa... Io credevo di...” borbottai, mentre morivo di vergogna.
“Non dirmi che era un altro gioco del cavolo per la sola curiosità di scoprire cosa si provasse a baciare un uomo?! Questa non te la perdono. Basta! Non mi vanno più queste stronzate!”
“Non era per questo, te lo giuro. Dicevi che ti piacevo e invece adesso stai con quello...! Quel giorno a Bologna sei stato tu a...!”
“Stai delirando! Tu non hai mai ricambiato ciò che provavo io per te! Tu davvero non riesci ad immaginare come sono stato io?! Per anni ho dovuto accontentarmi soltanto della tua amicizia. Non potevo sfiorarti, non volevo rischiare di perderti come migliore amico. E adesso... Tu mi stai davvero chiedendo troppo! Stavolta hai esagerato!”
“Avevo paura anch’io. Paura di quello che sentivo per te. Scusami, comunque non mi pento di averlo fatto.”
“Bene. A saperlo prima ti ci avrei infilato la lingua dentro quella bocca da cui escono solo un mucchio di stronzate! Sei un tipo assurdo! Cazzo, tu hai dei seri problemi! Trovati una ragazza, sarà meglio per te. Molto meglio che continuare a tormentarti l’anima con domande del tipo: Sarò gay anch’io? Cosa provo per Paolo, è solo un amico oppure qualcosa di più? E’ normale la mia gelosia?
“Stronzo.”
“Non l’hai detto incazzato. Ti rendi conto di essere tu in errore, spero? Sai, brutto imbecille, anch’io avrei tanto voluto fossi tu il primo. Ma non potevo, non potevo obbligarti, farlo con la forza.”
“Com’è stare con Yuri?”
“Non saprei dirti, temo non capiresti. Praticamente tra noi c’è una fortissima attrazione fisica” rispose, senza guardarmi in faccia, “forse solo quella” aggiunse qualche secondo dopo.
Eh, no, non capivo veramente.
“Il nostro è solo uno squallido rapporto di sesso, una volgare storia di letto...” concluse, poi, ridendo nervosamente.
Non credevo alle mie orecchie. Paolo mi stava confidando delle cose che mai avrei immaginato. Aveva parlato di... sesso?!
Yuri mi era sempre sembrato una brava persona. Si mostrava sempre gentile con lui. Ma che tipo era in realtà? Dopotutto Paolo aveva solo sedici anni e una vita davanti per cambiare idea. E se un giorno si fosse innamorato di una donna? Forse non era certo che fosse gay... Era ancora troppo giovane... Forse col tempo...
“E a te va bene così? Sei sicuro di esserne innamorato? Sei davvero convinto di non provare alcun interesse per le ragazze? Non posso fare niente per... aiutarti?” gli domandai.
“So che non capirai, ma io credo di amarlo davvero... E comunque, è una mia scelta, non voglio mica essere aiutato a guarire, non è una malattia. Non sono malato, quindi non







dispiacerti, dicendo in quel modo mi offendi solamente. So che non è facile comprendermi.”
E infatti non capivo affatto. Come potevo capirlo? Comprendere una situazione del genere lo ritenevo impossibile. Ma che cavolo gli era preso a Paolo?
“Si è fatto tardi. La mamma mi aspetta al negozio, devo andare. Ci vediamo, ok?” lo salutò, dandogli una pacca sulla spalla. Afferrai al volo la sua mano mentre si riabbassava lungo i fianchi. Gliela strinsi. Volevo dire qualcosa. Dovevo dire qualcosa.
E invece... E invece... Invece, lo fissavo come pietrificato. Tutti i muscoli del mio corpo si erano completamente immobilizzati.
“Lasciami andare. Non aprire delle inutili speranze in me. Il gioco degli inganni è finito da tempo, dai” mi sorrise Paolo.
Io non mollai la presa, anzi, strinsi più forte.
Le parole, dannazione! Dovevo parlare, assolutamente!
Paolo strattonò liberandosi dalla morsa. Mi lanciò un’occhiata piena di collera mentre si allontanava da me. I suoi occhi profondi e neri mi guardarono con disprezzo.


Che fareste se il vostro migliore amico, che conoscete fin dall’età di sei anni, crescendo scoprisse di essere attratto dai ragazzi anziché dalle ragazze? Lo abbandonereste?
Io avevo sempre voluto molto bene a Paolo. Lui mi era sempre stato vicino. Per anni era stato il mio unico amico, quando tutti mi stavano alla larga perché ero troppo strano per loro.
In prima media venni investito da una macchina davanti alla scuola. Rimasto in coma per tre mesi. Da allora credo di non esser stato più completamente in me. La  memoria ha iniziato a farmi brutti scherzi. Paolo non mi aveva mai lasciato solo e quando mi scoraggiavo perché non riuscivo a ricordare gli eventi passati mi era accanto dicendomi di non mollare. Ché non era importante il passato. Ciò che contava veramente era il fatto che io ero lì, con lui, e questo bastava.
Dopo la prematura morte di mio padre, Paolo era lì a farmi forza. In tutti i momenti di sconforto, nelle mie crisi interiori, lui era con me. Gli volevo bene, troppo bene, come adesso del resto. Inoltre, grazie a lui avevo potuto conoscere e frequentare P., una ragazza dolcissima, la prima persona di cui mi sono innamorato. Adesso riesco a capirlo, ad ammetterlo, a me stesso, che ne ero innamorato e che in realtà... quella persona era un ragazzo!
Lo so, i miei sentimenti sono contrastanti. Un eterno contrasto. Avevo molti dubbi a quel tempo e li ho tutt’ ora.
Volevo solo cercare di capire...

“Cerca di capirlo, è nervoso per  il concerto che terremo a Roma, il prossimo mese” tentava di spiegare Fabrizio a Irene.
Yuri era intrattabile negli ultimi giorni. Se la prendeva con tutti quelli che gli stavano intorno, compreso il povero Paolo.
“Ehi, Andrea vieni con noi al Caprice?”
“Stai scherzando, vero Fab?!”
“Ma no, stasera è prevista una seratina divertente...”
Il Caffè Caprice era un locale gay dove si poteva bere, chiacchierare, ascoltare buona musica e fare piacevoli (?) incontri. Ne avevo sentito parlare molto da Paolo. Sapevo che lui e Yuri erano assidui frequentatori di quel posto. Io non ero molto propenso ad andarci, temendo di essere infastidito da persone del mio stesso sesso. Spesso avevo rifiutato la proposta di fare una capatina al Caprice dicendo che ero molto stanco per via del lavoro, quella sera invece decisi di seguirli. Come avevo immaginato non appena entrammo, sentii gran parte degli sguardi dei presenti su di me. Non mi piaceva per niente la cosa.
La seratina “divertente” a cui si riferiva Fab consisteva nello scambio di messaggi, più o meno anonimi, rivolti al cliente che più ci piaceva. All’ingresso ci era stato consegnato un numero adesivo da mettere sul petto. In questo modo se qualcuno voleva poteva scrivere una dichiarazione d’amore rivolta al possessore di un certo numero, che poi sarebbe stata letta pubblicamente dal dj.
“Per il numero 76...” annunciò lo speacker, “Ti amo ancora. Sei dovessi cambiare idea... io sarò ancora il bambino che fa la pipì seduto!”
A quelle parole morii di vergogna. Quell’idiota! Una pala per seppellirmi, presto!
“Che razza di messaggio sarebbe?!” rise Fabrizio. “Che perversione...”
“Ma quale perversione? Sei tu che hai la mente contorta e perversa...!” dichiarai.
“Come?!” si stupì lui, non aspettandosi quella mia reazione. “Ma scusa, era un po’ ambigua quella frase...” spiegò.
“Andiamocene da questo posto, non ne posso più!” dissi.
Lanciai un’occhiataccia di disapprovazione a Paolo. Lui si limitò a sorridermi, e lo fece dolcemente. Per un attimo ebbi la sensazione che fosse stata P. a sorridermi.
Fabrizio offrì una sigaretta a Paolo, vedendolo nervoso. Lui accettò.
Rimasi di stucco! Da quando aveva preso a fumare? Lo fissai con tutta la mia disapprovazione, ma lui non si curò minimamente di me.
Uscimmo dal locale che erano già le due di notte. Fuori, per strada, incontrammo Yuri che stava dirigendosi al Caprice. Lui e Paolo si scambiarono uno sguardo d’odio, almeno a me sembrò. Non si dissero niente.
Ti amo ancora... Come potevo non rimuginare sul significato di quell’affermazione di poco prima?
“Ma cosa succede?” domandai a Paolo.
“Niente.”
Il concerto di Roma segnava l’inizio di un lungo tour che li avrebbe visti impegnati fino quasi alla fine dell’anno. Stavano diventando molto popolari.
Ti amo ancora...

Il fast food avrebbe chiuso i battenti a fine maggio. Appresi con tristezza la brutta notizia, assieme agli altri dieci miei colleghi, una piovosa mattina di metà mese.
Innanzitutto dovevo mettermi al più presto alla ricerca di un nuovo lavoro. Ero dispiaciuto anche per il fatto di dovermi separare da quei ragazzi con cui mi ero trovato così bene.
La sera dell’ultimo giorno di lavoro al locale si teneva un concerto di Yuri e company a Bologna. Ero sfinito fisicamente, perchè c’era stato il pieno di clienti, e psicologicamente, tuttavia andai ugualmente a vederli suonare.
Eravamo tutti sul furgone del gruppo. Io e Paolo stavamo nel vano posteriore tra gli strumenti. Non fu un viaggio molto comodo, ma per fortuna breve.
La musica degli Y.M.I.F. riuscì a distrarmi dalla mia preoccupazione sulla ricerca di un nuovo posto di lavoro. E non era solo la musica a distrarmi... Le gambe di Irene, dannazione! Perchè non le chiudeva?! Tutte quelle urla dei fans che invocavano il suo nome come cagne in calore... Io li odiavo! Mi chiedevo che bisogno avesse di  suonare in quel modo. Mi dava fastidio che tutti la guardassero tanto eccitati. Ero geloso. Sì, ero geloso. Perchè non suonava in un modo più composto? E lei che, invece, ci provava un gran gusto a vederli sbavare.
Furono due ore interminabili per me.
Paolo aveva preso a fissarmi in uno strano modo. Non diceva niente, ma sembrava in attesa di una spiegazione.
“Vado un momento al bagno, poi vi raggiungo dietro le quinte” dissi.
“Non ti ho mai visto così... Con quella faccia intendo!”
“Quale faccia?” chiesi facendo il finto tonto, ma sapevo di dover avere una faccia colpevole.  Una faccia con su scritto qualcosa di incriminante agli occhi di Paolo.
“Non riesci a farmi fesso!” dichiarò. “Solo... ti sei di nuovo innamorato della persona sbagliata!”
“Ma di cosa parli?!”
“Lo sai benissimo, di Irene, te lo leggo in faccia.”
“Allora hai bisogno di un paio di occhiali, la vista ti si è offuscata!”
“No, ci vedo più che bene!” ribattè lui. “Comunque ciò prova che non sei gay, non del tutto almeno... Beh, sarai contento!”
“Come sarebbe non del tutto...?! Vuoi farmi incazzare ancora di più con questi discorsi?! Non mi sono MAI piaciuti gli uomini!”
“Non ti piacciono, però li baci...” disse sogghignando Paolo.
“Certo non andrei mai a letto con un uomo, mi ripugna il solo pensiero!”
“Ehi, ragazzi!” li chiamò la voce di Fabrizio “Non ditemi che stavate litigando?” 
“Ma no...” risposi.
“Figurati, quando mai...” disse Paolo di rimando.
Paolo sapeva sempre ciò che provavo. Io negavo sempre tutto, ma inutilmente.

All’inizio di giugno avevo ripreso a lavorare. Consegnavo pizze a domicilio.
Subivo continui rimproveri da parte del mio capo.
“Nel tempo che hai impiegato a fare dieci consegne, gli altri ne hanno fatte il doppio!”
“Mi scusi” chiedevo perdono. Odiavo quel grassone quarantenne senza capelli!
‘Fanculo quel lavoro di merda! Correvo da matti col motorino per le strade di Ferrara rischiando la pelle ad ogni consegna e quello stronzo osava lamentarsi che ero troppo lento. Bucavo tutti i rossi, guidavo per strade in contromano, percorrevo le corsie preferenziali... per un misero stipendio del...!
“Via xxx, ci vai tu?”







xxx... avrei voluto cancellarla dallo stradario se fosse stato possibile.
“Ehi, ci sei?!” grugniva il Capo.
Presi le pizze e partii.
Via xxx numero 5, terzo piano. 
...Vannini!
Mi tremavano le gambe mentre l’ascensore saliva. “Gliele lascio davanti alla porta e me la filo” pensai, “i soldi ce li metto io!”
Purtroppo, però, mentre mi apprestavo ad appoggiare le pizze per terra, la porta si aprì.
La Vannini mi guardò stupefatta.
“Buonasera” dissi, provando a teletrasportarmi da qualche altra parte. Qualche altra parte. Qualche altra parte. Qualsiasi altra parte sarebbe andata bene.
“Che sorpresa, Andrea. Come stai?”
Mi fece entrare in casa sua.
“E’ un mio ex allievo” spiegò al marito.
L’uomo mi strinse la mano e sorrise: “Piacere di conoscerti, sono Sergio.”
Che strano, non avevo mai pensato che la professoressa potesse essere sposata. In quel contesto non mi spaventava. Il disagio di averla rincontrata era sparito.
Mi trattenni poco, altrimenti il Capo c’era da sentirlo sbraitare per l’intera città!
Accompagnandomi alla porta mi lasciò il suo numero di telefono nel caso avessi avuto bisogno di qualcosa. Di qualsiasi cosa, ci tenne a specificare.
Mi affrettai a rientrare alla ‘base’. Feci ancora una quindicina di consegne. Ero stanco da morire quando rientrai a casa.
Nella casa di fronte alla mia, la luce nella camera di Paolo era accesa. Mi chiesi cosa stesse facendo. Rimasi ad osservare la sua finestra, fino a che qualcuno l’aprì. Paolo mi guardò incuriosito.  Io me ne stavo come un idiota piantato per strada, a pochi metri da lui.
“Sei tornato adesso?”
“Sì...”
“Aspettami, scendo subito!”
Camminammo fino al vicino giardino pubblico. Sedemmo a parlare su di una panchina. Parlammo fino a tardi. Io gli confidai di voler venire via dalla pizzeria, chè mi sentivo solo sfruttato. Lui mi parlò della scuola e di Yuri. Infine, il discorso cadde sulla difficoltà che stava attraversando nel relazionarsi agli altri. La continua costrizione a fingere sia in famiglia che con gli amici.
“E’ dura sopportare in silenzio,” mi confidò, “ridere alle battute sui gay come se niente fosse... mentire in continuazione... e fingere fingere fingere...”
Non sapevo cosa rispondergli. Non avevo idea di come comportarmi. Provavo un enorme dispiacere per la sua sofferenza, ma cosa avrei potuto dire? Non prendertela? Che potevo fare per lui?
“Andrea, in che casino mi son cacciato...?”
”Paolo...”
“Guarda che bella notte stellata... credo che a P. piacerebbe molto” affermò. Aveva gli occhi un po’ lucidi e la voce gli tremava.







Alzai lo sguardo verso il cielo. Pensai a lei, non dissi niente.
“Ti ricordi le notti passate sulla spiaggia a contare le stelle cadenti?”
“Già, mi facevi una tale rabbia! Facevamo a chi ne scorgeva di più e tu mi battevi sempre!”
“Il desiderio che esprimevo era molto importante per me e credevo che più ne avessi viste più probabilità ci sarebbero state che si fosse esaudito!”
“Cos’era?”
“Non ha più tutta l’importanza di allora. Ad ogni modo quella teoria non ha funzionato... non si è mai avverata la mia richiesta!”

 
Ero tornato alla macchina, dopo aver rivolto un ultimo sguardo al mare. Avevo rivisto con l’immaginazione me e Paolo ragazzini su quella spiaggia. E i ricordi sembravano essere i soli a riscaldarmi in quella fredda notte.
Sarei dovuto rientrare a Ferrara. Lei mi aspettava.
Una parte di me avrebbe, invece, voluto correre dietro a Paolo: la parte egoistica di me... o quella sincera?
“Aspetterò l’alba, ormai dovrebbe mancare poco” mi dissi. E poi sarei tornato a casa.





















                                                            










                                                              Quinto capitolo


                                                           

Avevo compiuto da poco diciassette anni quando entrai a lavorare come barman al Caffè Caprice. Era stato Yuri a trovarmi quel posto. Mi aveva presentato al suo amico Stefano, il proprietario del locale, al quale ero piaciuto subito. Così finalmente abbandonavo quella maledetta pizzeria! 
Il lavoro al disco pub mi piaceva molto, l’unica pecca era che dovevo sopportare ogni sera i vari tentativi di abbordaggio da parte dei clienti. Tuttavia, nessuno si era mai comportato scorrettamente nei miei confronti. Nessuno aveva mai osato importunarmi, o aveva insistito dopo un mio rifiuto. Nessuno fino a che una sera, un tipo alquanto risoluto, mi aspettò all’uscita dal pub. La sua insistenza mi spaventava. Fortuna che Stefano, prevedendo una cosa del genere, era uscito insieme a me.
Il giovane, sulla ventina, se ne stava sull’altro lato della strada ad aspettare. Avevo paura. Possibile che per una cosa o per un’altra per me il lavoro dovesse essere sempre un rischio? Stefano mi passò un braccio attorno alla vita. Io mi strinsi a lui, poggiando la mia testa sulla sua spalla. Era una situazione davvero imbarazzante, ma non avevo altra scelta e non m’importava. Il cuore mi batteva all’impazzata quando arrivammo a passargli davanti. Il tipo ci guardò con un’espressione contrariata, lo notai con la coda dell’occhio.
“Non potrei mai perdonarmi se dovesse accaderti qualcosa all’uscita dal lavoro...” mi disse Stefano una volta lontani dal caffè.
“Grazie.”
“Ti scorto fino al motorino, non preoccuparti. Voglio assicurarmi che non ci abbia seguito!” sostenne seriamente preoccupato.
“Siamo arrivati... E’ quello là!”
Aspettò finchè non misi in moto, poi se ne andò. Avevo una fifa tremenda, come mai prima d’ora. Me la facevo sotto. Ero un ragazzino, dannazione!
Parcheggiai il ciclomotore sotto casa. Mi guardai intorno, con circospezione. Temevo che nascosto in qualche angolo buio potesse esserci quel tizio poco raccomandabile che mi aveva fatto la corte tutta la sera.
Alzai  gli occhi verso la finestra della stanza di Paolo. Era spenta. Provai ancor più paura e mi affrettai ad entrare in casa. Ero salvo, ma mi tremavano ancora le gambe!
I giorni seguenti, Stefano prese ad accompagnarmi ogni notte al motorino. Purtroppo il Caprice si trovava in una zona pedonale ed ero costretto a parcheggiare a circa trecento metri dal locale. Alla fine mi decisi a ritirare fuori la mia vecchia bicicletta, per non approfittare sempre della gentilezza che mi faceva Stefano.
Smontavo dal lavoro abbastanza tardi, dopo le tre di notte, l’ora in cui chiudeva. La mattina dormivo fino a tardi. Il lavoro di barman mi piaceva molto. Al banco ero affiancato ad un altro ragazzo, Tomas, che aveva solo un paio d’anni più di me.
Non avevo detto a mia madre che tipo di locale fosse pensando che certamente non avrebbe






approvato. Poi, un giorno parlandone con Giorgio questi aveva fatto una faccia stranamente sorpresa sentendo il nome Caprice. Quindi la mamma, insospettita da quella reazione, senza dire niente, era venuta a trovarmi al caffè. Una sera me la vidi apparire davanti all’improvviso. Sbiancai e presi a sudare freddo. Ordinò un cappuccino al banco e prese a guardarsi intorno. Leggevo quella fastidiosa sensazione di disagio nei suoi occhi mentre osservava tutte quelle coppie di uomini che parlavano in un modo così intimo seduti ai tavolini. Non c’erano dubbi: aveva realizzato immediatamente che razza di locale fosse quel Caprice!
La riaccompagnò a casa Stefano. Appena rientrai anch’io mi fece la predica.
L’unica cosa che feci fu quella di spiegarle che dopotutto era un lavoro come un altro e che io mi limitavo a preparare i cocktail. E ci tenni a precisare che io non ero affatto un gay!
“Non devi vergognarti perchè tuo figlio lavora al Caprice! Per me puoi anche tenerlo nascosto, però non devi giudicarmi male perchè lavoro in un ambiente del genere. E non chiedermi di lasciare il posto, non lo farei per motivi di reputazione o cavolate del genere! Io mi trovo bene lì, Stefano è gentile con me, e lo stipendio è buono. Quindi non intrometterti, per favore...” dissi, spiegandole le mie ragioni.
Mi venne in mente che erano secoli che non discutevamo così. Erano secoli che mia madre non si comportava come tale. In fin dei conti ciò mi faceva anche piacere. Finalmente si era ricreato un dialogo tra noi.



“Cosa stai ascoltando?” mi domandò Tomas vedendomi assorto nell’ascolto del mio walkman, mentre aspettavamo di aprire il pub.
“L’ultimo album degli Y.M.I.F.”
“Allora sei un fan di Yuri... o di Irene?”
“Diciamo di entrambi... Mi piace molto la loro musica” avevo dichiarato.
“Sai, anche Ste’ è un fan di Yuri!” aveva risposto con entusiasmo Tomas. “Non è vero, Ste’?”
“Già, sono stato il suo fan numero uno. Ascolto la sua musica da quando acquistò la sua prima chitarra elettrica. L’accompagnai io alle Messaggerie Musicali, me lo ricordo come fosse ieri... E son già passati dieci anni!”
“Vi conoscete da tanto tempo, allora?” constatai.
“Fin da piccoli” precisò Stefano. Poi, andò ad aprire il caffè.
Mentre Stefano tirava sù la saracinesca del pub, Tomas mi bisbigliò: “Sono stati insieme per tre anni.”
Afferrai immediatamente quello che intendeva dire con quel stati insieme. Insieme, certo, per tre anni. Avevo, in effetti notato, che tra loro doveva esserci un rapporto molto particolare. L’avevo notato fin dal giorno in cui Yuri me l’aveva presentato.
“Senti, credo di aver capito che tu non hai alcun interesse per gli uomini... Ad ogni modo ci tengo a dirti che io sono eterosessuale, quindi non innamorarti di me!” scherzò Tomas.
“Non hai di che preoccuparti, tranquillo” lo rassicurai.







“Le sette! Tra una mezz’ora dovrebbe sorgere il sole...” pensai davanti alla riviera adriatica. Qualche bar sul lungomare stava iniziando ad aprire. “Chi sarà quel matto che va a far colazione all’alba in pieno inverno?” mi chiesi, e così dicendo scesi dall’auto e mi diressi verso uno di quegli esercizi così mattinieri.
Entrando provai un po’ di nostalgia per il mio lavoro al Caprice che avevo lasciato da circa due mesi, per dare una mano a mia zia che aveva preso la licenza di barista.  Dall’inizio di novembre lavoravo nel bar di mia zia. Mi era dispiaciuto lasciare Stefano, uno dei pochi veri amici che avessi mai avuto.
Feci colazione. Cappuccino e brioches. Mi accorsi di conoscere il barista. Era un ragazzo che aveva lavorato nel ristorante dell’albergo di mio zio. Lo guardai bene: era proprio lui, ma non mi riconobbe.
Uscii e mi diressi sulla spiaggia. Sedetti in riva al mare. Ancora con i miei pensieri...
                                               

Mi addormentai di sasso, non appena m’infilai sotto le lenzuola. Ero stanco morto. Il lavoro di barman al Caprice era davvero stressante. Le avance di tutti quegli intraprendenti ammiratori erano stressanti.
Sognai Giorgio che stringeva tra le braccia mia madre: La mia mamma!
Quel gesto mi infastidiva tremendamente. Volevo gridare e non ci riuscivo. Non volevo vedere quell’atto che appariva tanto disgustoso ai miei occhi. Volevo gridare il nome di mio padre, in preda alla disperazione, ma non ci riuscivo.
“Basta! Perché devo sopportare tutto questo?!” mi lamentavo.
Al risveglio, provai una sensazione davvero sgradevole.
Mi tornava in mente molto spesso quella scena vissuta in sogno: Mia madre abbracciata con un venticinquenne!
Non riuscivo a farmene una ragione. Non avrei mai accettato la loro relazione. E i coniugi Morini come potevano prendere la situazione tanto alla leggera?! Dopotutto, il loro amato figlio usciva con una donna di quarantacinque anni! E per di più... una donna che prestava servizio in casa loro come domestica! Tutto ciò era assurdo!
Mia madre sorrideva, adesso, come non la vedevo sorridere da tanto tempo. Come potevo esprimerle la mia disapprovazione? Mi sentivo prigioniero di quell’odiosa situazione, costretto a starmene buono buono mentre dentro il sangue mi ribolliva per la rabbia.
Quasi ogni sera, rientravo a casa dal lavoro, e trovavo mia madre seduta al tavolo di cucina, in lacrime, con la testa tra le mani. Quanto avrei voluto stringerla tra le mie braccia! Invece, non riuscivo neanche a spiccicar parola. Non riuscivo neanche a pronunciare la parola “mamma”...
Se avessi avuto la possibilità di andarmene da quella casa l’avrei fatto, ma col mio solo stipendio era totalmente impensabile credere di poter pagare le spese dell’affitto di un appartamento. Così resistevo, facendo finta di non vedere ciò che vedevo.
“Vai già al lavoro? Non è un po’ presto?” chiese la voce di mia madre, dal bagno. Doveva aver sentito aprire il chiavistello della porta d’ingresso.
“Passo dalla sala prove, devo portare alcune cose a Yuri. Ciao, a dopo!”







Molto spesso neanche la salutavo uscendo di casa.
Avevo incontrato Irene, la mattina, che mi aveva pregato di portare alcuni fogli a Yuri, allo studio di registrazione. Lei era impegnata fino a tardi con le ripetizioni di latino e il lavoro di baby sitter. Le facevo il favore, tanto ero di strada per recarmi al Caprice.
Irene mi aveva dato le chiavi dello studio, quindi entrai tranquillamente senza suonare... Maledetto me!
Tutto taceva, immerso nel silenzio, ed io, scemo, non chiamai il nome di Yuri né chiesi se c’era nessuno. Aprii la porta dell’ufficio, ignaro di ciò che mi aspettava al di là della soglia. Fu per un attimo, ma fu per troppo. Yuri e Paolo, insieme, per terra. Richiusi la porta immediatamente e alla velocità di una frazione di secondo. Troppo veloce per aver visto i dettagli di quella scena dall’inequivocabile atmosfera hard Però, li avevo sorpresi nella loro intimità: i loro corpi erano avvinghiati, senza alcun dubbio.
 “Cazzo, che schifo!” pensai, portandomi una mano alla bocca.
Sentivo lo stomaco sottosopra a causa di quella visione così poco ortodossa di... petting omosessuale? D’ altraparte la colpa era stata mia. Ero entrato così furtivo.
Sentii lo stomaco che si contraeva con spasmi incontrollabili .Corsi in bagno, a vomitare nel cesso. Il water mi appariva come la mia unica salvezza. Continuavo a vomitare abbracciandolo e ripetendo a me stesso: “Dio Mio, che schifo!”
Uno spettacolo a dir poco ripugnante, sebbene sapessi che loro stavano insieme e logicamente facevano anche quello, ma mai avrei immaginato di assistere in prima persona ad una cosa talmente disgustosa. Avrei infilato volentieri la testa dentro al cesso per quanto ero rimasto inorridito, e per l’imbarazzo provato. A quel sentimento di orrore se ne andava lentamente aggiungendo un altro. Uno strano e confuso sentimento di... rabbia? Un’uggiolina fastidiosa che si insidiava in un punto sconosciuto del cuore e che pungeva. Pungeva dannatamente...
di gelosia?
Avvertii dei passi che giungevano verso il bagno. Vista l’urgenza in cui mi ero trovato non avevo fatto in tempo a chiudermi dentro. La porta era aperta, ma Yuri bussò comunque sulla porta chiedendo il permesso di entrare.
“Stai male?” chiese preoccupato, chinandosi verso di me.
“Vattene via, per favore!” lo respinsi, ma lui mi poggiò una mano sulla spalla. Allora, scacciai via la sua mano. Mi infastidiva la sua premura.
“Andrea...”
“Vattene, mi fai schifo! Tutti e due mi fate schifo!” urlavo, come un ossesso, senza guardarlo in faccia. Non volevo vedere quello schifoso pervertito che fino a tre minuti fa era di là a dar sfogo ai suoi più bassi istinti con Paolo.
Schifo! Schifo! Schifo! Non riuscivo a pensare a nient’altro.
“Guarda che sei stato tu ad introdurti nell’edificio come un ladro. Potevi suonare, no? Avresti evitato di andare incontro a così, per te, tanto spiacevoli sorprese!” replicò, seccato, Yuri.
Aveva ragione lui: Che errore imperdonabile avevo commesso!
Avrei mai potuto dimenticare una visione del genere? Tutta quella perversione, di cui finora ero a conoscenza, ma solo in teoria? Pensai sarebbe stato molto difficile rimuoverla.
Ero certo di trovarmi su di un altro pianeta rispetto a loro. Non condividevo affatto  i loro






gusti sessuali, non li capivo, ma chissà perché ogni tanto ero sfiorato da atroci dubbi in proposito. E anche in quel momento, non potevo far altro che ammettere che se da una parte ero schifato dall’altra... ero geloso! Non saprei dire bene neanche adesso su cosa si basava esattamente la mia gelosia...
Sentivo che la nostra amicizia si era di nuovo incrinata, e stavolta immaginavo per sempre.
Vedere Paolo far sesso con Yuri era stato sconvolgente. Avevo compreso di averlo perso definitivamente, ma le cose andavano bene così. Tutto seguiva il suo corso. Io avevo sempre rifiutato l’amore di Paolo, quindi era normale che lui...
Insomma, tu rifiuti una cosa e qualcun altro se la prende al tuo posto!
“E’ normale che accada questo. Normale. Perfettamente normale! Non devo prendermela per questo!” me lo ripetevo, ma facevo un’enorme fatica a crederlo veramente. Ecco un’altra cosa che non volevo, egoisticamente, accettare.


Vendetta. Da giorni meditavo a lungo su due questioni che mi davano entrambe il voltastomaco. Odiavo con tutto me stesso Paolo e Irene. Paolo era stata una bambola con la delicata faccia di porcellana, preziosa, da tenere in vetrina e adesso non era che una brutta marionetta, col ventre squarciato, gettata nell’immondizia. In quel momento la vedevo così. Quanto ad Irene, la donna fatale, dietro a cui tutti morivano, godeva nel trattare quelle bestie sbavanti con tanta indifferenza. Godeva nel provocarli da sopra il palco, quale più oscuro sentimento di perfidia albergava in lei!
Era la serata di chiusura del tour estivo, al Noise.
“Ciao, finocchietto!” mi aveva salutato, con mezzo sorriso, a fine concerto.
Voleva essere spiritosa, forse? Che voglia di prenderla a schiaffi! Il folle desiderio di vendetta si faceva sempre più strada nella mia testa, dove il tasso alcolico aveva già superato il livello di guardia. Tra me e lei era ancora guerra aperta. E quella sera avrei vinto io, o almeno avrei pareggiato i conti, una volta per tutte. Le avrei dimostrato che non ero affatto un frocio!
“Andrea, mi gira la testa...” mi disse gettandomi le braccia al collo. Era talmente fatta d’alcol e cocaina che non avrebbe certo potuto ribellarsi alla mia violenza. Ero deciso. Stavo perdendo il controllo di me. Stavo perdendo il controllo...
La trascinai nel bagno delle donne. Aprii la porta di uno dei due cessi e la scaraventai dentro.
Non reggendosi molto bene in piedi andò a sbattere la testa contro la parete. Poi, è scivolata a terra. Le rivolsi uno sguardo di disprezzo.
“Ma cosa fai?” riuscì a dire, mentre con la mano si toccava la ferita alla fronte. Sanguinava un po’, ma niente di grave. Io la odiavo, dal profondo.
“Sta’ zitta!” la intimai. “Adesso scopiamo, così la smetterai di accusarmi d’esser frocio! Non ne posso più!” dichiarai, slacciandomi i pantaloni.
Irene non disse più niente. Di nuovo la guardai con disprezzo. Lei abbassò gli occhi.
Non ero in me.
                        Io non ero in me.
                                                    Non ero in me!
Il suo corpo mi eccitava da matti. E mi eccitava pensare che quella era la donna che tutti






avrebbero voluto portarsi a letto. E mi eccitava immaginare la faccia che avrebbero fatto Paolo e Yuri se avessero potuto vedermi. Mi  eccitava quella sorta di vendetta. Era la mia rivincita. Il mio riscatto.
La feci mia con tutta la violenza e la rabbia che mi portavo dentro. Ho goduto, poi... Non so, il mio sguardo è caduto sulla sua minigonna di raso nera. Per un attimo la figura di Irene si è sostituita con l’esile figura di P.
Stavo venendo catturato dentro ad un delirio sempre più folle. Un delirio senza scampo.
“Irene...!” dovetti chiamare, per destarmi da quella sconvolgente visione.
“Questo non è mica amore...!” si lamentò lei. E le sue parole mi scossero un po’. Mi resi conto di ciò che avevo fatto. Dio, come avevo potuto abusare di lei?
“Questo non è mica amore...!”
Quello, però, era l’unico amore che conoscevo. Un sentimento fatto di violenza, d’egoismo. Avevamo fatto sesso. Solo sesso. Sesso sporco. Mi sentivo da schifo.
Dopo aver fatto il mio porco comodo tentai di aprire la porta, ma Irene mi afferrò debolmente per la maglietta. Era ancora per terra, mezzanuda. La fissai per qualche istante. Ricordai il sopruso subìto dalla Vannini. Anche se ero consenziente, in realtà ero ancora piccolo per poter capire i danni morali che mi infliggeva. Quella della Vannini era stata violenza bella e buona. Violenza psicologica, che adesso partoriva tragiche conseguenze.
Non è amore...
“Cosa vorresti fare, splalancare la porta per dimostrare a tutti di essere un uomo?!” mi chiese, con un filo di voce.
Nel sentire le sue parole, mi ripresi un po’ da quella cieca follia che si era impossessata di me. Le rivolsi uno sguardo compassionevole.
Che diavolo ho fatto? Che ho fatto? Che ho fatto?
Appoggiai la mano sulla maniglia. Ero stato sfiorato veramente dall’idea di spalancare quella maledettissima porta affinchè tutti potessero rendersi conto che non ero un frocio.
Sono pazzo! Dio, voglio morire! Adesso!
Mi abbassai verso Irene chiedendole come stava...
Ma che figlio di puttana! Non avevo niente di meglio da dire?
Lei mi guardò con quegli occhi azzurri, che si erano fatti piccoli piccoli, senza rispondere. L’abbracciai forte e la baciai, temevo rifiutasse le mie labbra invece...
“Perchè non l’hai fatto anche prima? Ma chi ti ha insegnato a... Mi terrorizzavi, avevi uno sguardo che non ti avevo mai visto prima!”
Non volevo ascoltarla e così la baciai di nuovo. Un bacio vero stavolta. Il mio primo bacio vero. Non sapevo come si facesse l’amore- non sapevo cosa fosse l’Amore- conoscevo soltanto il sesso. Ed ero capace soltanto di offrire violenza poichè solo quella avevo ricevuto. Non sapevo proprio niente riguardo l’amare qualcuno. Come si amava una donna...?
Mi sentivo triste. Mi odiavo. Avevo commesso uno dei peggiori crimini che un uomo può commettere nella sua vita! Volevo morire!
Dopo essere uscito dall’auditorium ho vagato per le vie di Ferrara senza sapere dove stessi andando. Che avrei fatto d’ora in poi? Non sarebbe bastato chiedere scusa... Mi sentivo un mostro. E volevo morire!






Ero solo come mai ricordavo di esser stato. Non potevo chiamare P., nè Paolo, nè Yuri, nè Fabrizio, nè Stefano, ... e non me la sentivo neanche di tornare a casa da mia madre!
I giorni che seguirono evitai accuratamente di farmi vivo. In quanto ad affrontare Irene non se ne parlava proprio. 
Passarono due settimane e fu Irene a presentarsi a casa mia. Mi salutò sorridendo, come se non fosse accaduto niente, invece era accaduto l’irriparabile tra noi. C’era anche mia madre, così uscii per parlarle in privato.
Il solito giardino pubblico che spesso aveva fatto da scenario per i litigi tra me e Paolo adesso mi vedeva discutere con Irene. Lei non era arrabbiata, voleva soltanto una spiegazione.
“Non l’avrai fatto sul serio per dimostrare che non sei gay?! Non sarai così stupido... Perchè gli uomini usano sempre la violenza quando hanno paura di non saper tener testa ad una donna?!
“Cosa vuoi saperne della psicologia maschile?” avevo replicato.
“Vorrai dire della stupidità maschile...” aveva precisato lei. “Non ne so molto, io... so soltanto che sei un grandissimo stronzo!” mi accusò duramente.
“Sì, hai ragione. Potrai perdonarmi? Non so cosa dire... Eravamo entrambi ubriachi e... “
“Non penso basterà quella parolina di cinque lettere... Andrea, tu mi hai stuprata!”
Quell’ultima parola  risuonò spaventosamente nella mia testa.
“Ecco che te ne rimani lì, muto come un idiota...” disapprovò lei.  “Sei come un bambino che ha combinato qualche pasticcio e teme i rimproveri... Sai che potrei denunciarti?”
Abbassai lo sguardo.
“Non preoccuparti, non lo farò, e non lo dirò a nessuno. Anch’io ero ubriaca... E poi, non so... tu... Perchè mi hai baciata alla fine? Prima abusi del mio corpo con tanta violenza e poi... un gesto d’amore?”
Non sapevo cosa dirle. Non sapevo come comportarmi. Mi facevo solamente schifo.
“Stuprata da un minorenne, questa sì che è buffa!” rise Irene.
“Ascolta, io...” presi a dire, ma lei m’ interruppe.
“Non sapevi assolutamente quello che facevi, vero? Mi detestavi e ti sei voluto sfogare, be’ hai fatto bene... Vedi, lo so che sono proprio una stronza, e lo ammetto. Non ti odio per quello che mi hai fatto. Credo che noi due siamo davvero molto simili. Siamo entrambi soli e...”
Perchè non riuscivo ad esternare i miei sentimenti neanche con lei? Non ci sarebbe stato niente di male, e soprattutto niente di sbagliato.


Tre anni fa, sulla spiaggia di Rimini, ho sperato di poter rivedere una persona. Dall’ultima volta che passammo il pomeriggio insieme avevo pensato spesso a lei. Mi mancava la ragazza che anni prima aveva fatto ingelosire Paolo: Marina.


Avevo ricevuto una sua lettera in cui scriveva che per il week-end dell’ultima settimana di marzo sarebbe venuta a Ferrara. Suo padre doveva venirci per motivi di lavoro e lei gli aveva







chiesto di poterlo accompagnare per rivedere i vecchi amici.
Non stavo più nella pelle. Erano passati più di quattro anni da quando si era trasferita a Torino. Per tutto questo tempo però avevamo mantenuto un’assidua corrispondenza epistolare.
Avevo raggiunto ormai la maggiore età e stavo studiando per prendere la patente di guida. A darmi lezioni di pratica ci si era messo anche Yuri, che aveva la patente da dieci anni, e che spesso mi faceva guidare la sua macchina. Nonostante passassimo molto tempo insieme non ero ancora riuscito a confidargli di me e Irene. Mi chiedevo se mi sarei mai liberato dal peso di quella brutta faccenda. Solo Dio sa quanto avrei desiderato parlargliene, ma ogni volta mi si bloccavano le parole nella gola e non uscivano fuori.
Il sabato mattina in cui avevo appuntamento con Marina davanti all’hotel in cui alloggiava con suo padre, fu Yuri ad accompagnarmi in auto.
Marina non era cambiata molto dai tempi delle medie. Era ancora bellissima come la ricordavo. Passammo l’intero pomeriggio a gironzolare per le vie del centro. Era una ragazza molto diversa da Irene. Lei era gentile, come solo P. lo era stata con me. Il solo starle vicino mi rendeva di buonumore.
Quando mi aveva avvisata sarebbe venuta a Ferrara, mi ero dato da fare per organizzare una  rimpatriata di vecchi compagni di classe. Avevo ancora i numeri telefonici di tutti, e Paolo mi aveva dato una mano a fare un giro di chiamate. Cenammo in una pizzeria vicino al suo albergo.
Durante la cena, furono in molti a scherzare sul nostro conto. Credevano stessimo insieme, be’ magari se lei non avesse abitato a Torino chissà...
Ultimamente mi interessavo alle ragazze, e lo ritenevo un notevole miglioramento. Comunque rimaneva il fatto che la mia vita era piena di uomini! Al Caprice poi, tutti mi facevano il filo, nonostante girasse voce che ero il ragazzo del capo. Stefano ne approfittava, ma non con cattive intenzioni, per abbracciarmi o baciarmi sulla fronte. E soprattutto quest’ultima cosa mi faceva sentire un perfetto idiota.
“Certo che formate proprio una bella coppia tu e Marina!”
E Paolo? Cosa ne pensava Paolo di quei discorsi? Cercai d’incrociare il suo sguardo, ma era troppo occupato a parlare con Fabrizio. Avevamo invitato anche lui alla cena.
Ero certo che a Paolo ormai non fregasse più niente di tutte quelle sciocchezze da ragazzini. E poi, cosa mai gli sarebbe dovuto importare di me? Lui aveva Yuri, era il suo ragazzo. Se io e Marina ci fossimo messi insieme non la cosa non l’avrebbe minimamente toccato...
Al termine della serata riaccompagnai Marina dal padre. Ci salutammo davanti all’hotel, dall’altro lato della strada. Ci baciammo. Mi fu difficile lasciarle le mani che tenevo strette nelle mie. La guardai attraversare quando un’auto sopraggiunse verso di lei ad una velocità piuttosto elevata.
“Attenta!” le gridai, ma l’auto l’aveva già investita in pieno. Il suo corpo per l’urto era stato sbalzato via, facendole fare un volo di qusi cento metri. Una donna che aveva assistito anch’essa alla scena gridò terrorizzata. La gente si riversava in strada accalcandosi attorno al corpo inerme di Marina. Io mossi qualche passo in avanti, non ce la feci a raggiungerla. I soccorsi arrivarono presto, fortunatamente, tuttavia non riprendeva conoscenza. Salii con suo






padre a bordo dell’ambulanza. Seduti in quella piccola sala d’attesa il tempo sembrava essersi fermato. Non avevo il coraggio di dire una sola parola a quell’uomo che mi sedeva accanto fissando il pavimento. Più tardi andai a telefonare a Paolo. Mi raggiunse in ospedale incredulo. Solo un’ora prima eravamo tutti insieme a scherzare in pizzeria e adesso
Adesso..., no, non potevo crederlo neanche io!
“Andrea...”
Eravamo scesi giù nell’atrio.
“Hai una sigaretta?”
Paolo si era sorpreso lì per lì, ma poi aveva compreso.
“Tieni, mi è rimasta l’ultima.”
“Sai, ho rivisto me prima... l’incidente di cinque anni fa...lo stridore di una frenata... quella macchina che mi viene addosso...Poi, più niente, il buio assoluto! Ce la farà, vero? Marina, si salverà...? Ce l’ho fatta io! Se è sopravvissuto uno stupido come me figuriamoci lei, così bella e...!”
“Ti sei messo con lei veramente?”
Non mi aspettavo una domanda simile, e poi non in quella circostanza. Il volto di Paolo appariva stranamente turbato.
“Ci stavamo pensando. Ci siamo baciati al momento di salutarci... Lei mi piace molto, a dir la verità. So che la distanza tra Ferrara e Torino è notevole, però...”
Paolo, non pronunciò parola, solo mi si gettò tra le braccia.
“Ehi, siamo in ospedale...! Contieniti!” Mi guardai attorno, preoccupato.
“Come fai a non capire, brutto stronzo!”
“Smettila di dire cose senza senso. Dai, dobbiamo risalire, magari ci faranno sapere qualcosa...!”
“Ma che diavolo vuoi che ti dicano? Rimani qui, salgo io. Non voglio che tu stia ancora più male, intesi?”
“Dici un mucchio di stronzate, lasciami andare!” mi opponevo, tentando di liberarmi dalla sua stretta.
“No, non ti mollo!”
“Mi hai proprio rotto adesso! Fammi andare da Marina!”
“Quello che ti ho detto quella sera al Caprice era vero... che ti amo ancora... e vorrei che anche tu fossi sincero con te stesso!”
“Io lo sono, lasciami andare! Dai, che c’è gente, finiscila di fare il cretino!”
“Ma davvero pensi che io abbia dimenticato?! Idiota, ho avuto paura di perderti quella volta! Perdonami, credevo non ti saresti mai svegliato e... Dio, scusami l’unica cosa che mi veniva in mente era che te ne andavi senza lasciare testamento e non avrei potuto avere le tue cose... i tuoi libri, i tuoi dischi...! Ora mi odi, eh? Veramente, sono stupido, e non avevo mai avuto il coraggio di dirtelo. Non sono forte come credi, lo faccio credere a te, ma pensavo saresti morto. Questa è la verità e ora io...”
“Non m’importa, avevi tredici anni. E’ comprensibile facessi simili pensieri, certo non ti odierò per questo!”
Insistevo nel liberarmi dalle braccia di Paolo, quando il padre di Marina comparve davanti a







me, alle spalle di Paolo. Aveva lo sguardo assente e scuoteva la testa.
Un brivido percorse tutto il mio corpo. Non volevo crederci, ma sapevo cosa succedeva.
Le parole di Irene mi balenarono in testa: “Hai mai desiderato morire?”
Sì, in quel momento lo desideravo davvero. Meglio fosse successo a me cinque anni fa che non a...!
Non é vero! Non è vero!
Cazzo, no, non poteva esser vero!
Ma perchè non diceva niente?
Quell’uomo mi fissava con quello sguardo spettrale e non diceva niente!


Il doloroso ricordo della morte di Marina era ogni volta una pugnalata in pieno petto. E adesso quel mare maledettamente blu, chissà perchè, mi aveva fatto pensare a lei, a quanto mi mancasse.
Strinsi i denti e battei il pugno sulla fredda sabbia. Lanciai un’occhiata di disprezzo a quel mare crudelmente blu.
Sperai di vedermela comparire davanti, avvolta dalle onde come una Venere.
L’unica ragazza che mai avessi davvero amato se n’era andata senza che io avessi avuto il tempo di dirle che avrei voluto stare con lei, magari per sempre. L’unica ragazza, naturalmente se non si prende in considerazione P.!



“Stai ancora scrivendo?” mi chiese Irene, sedendomisi accanto sul divanetto nell’atrio della sala prove. “Sarei curiosa di leggerlo, poi, il tuo racconto... sono due settimane che te ne stai chino su quel bloc notes! Ma non faresti prima ad usare il computer?”
“Figurati, i veri artisti scrivono di getto su tutto ciò che gli capita” sostenne sorridendo Yuri, che li aveva raggiunti.
“Non c’è niente di meglio che la buona vecchia carta!” risposi, senza alzare lo sguardo dal mio tacquino. “E comunque non posso certo definirmi un artista... Lo faccio solo perchè mi piace farlo, per un puro piacere tutto personale!” dichiarai.
Irene si alzò dal sofà, lasciando il posto a Yuri. Lui prese ad osservarmi, incuriosito da quel mio attacco di follia . Scrivevo senza sosta come un ossesso. Rimase accanto a me fino a quando Fabrizio non lo chiamò nell’altra stanza.
Irene tornò a sedersi vicino a me.
“Non era la prima volta, vero?”
Ero concentratissimo su quanto stavo scrivendo, ma a quell’ asserzione arrestai il fluido d’inchiostro.
“Con quante ragazze...”
“Una, soltanto una... e non mi va di parlarne!” cercai di tagliar corto.
“E’ stato così brutto?”
“Non è quello... Il fatto è che io non ne avevo molta voglia, fu lei a insistere.”






“Non ti è piaciuto perchè lei ti ha costretto? Bella questa! ...E tu hai fatto la stessa cosa con me! Lei ti ha preso con la forza?”
“Diciamo che si è trattato più che altro di un ricatto morale...”
“Violenza psicologica... E questo dovrebbe spiegare perchè ti sei comportato in quel modo con me? Dovrebbe giustificarti?”
“Ma no, stai facendo tutto da sola!”
“Lei chi era?”
“Una persona che detesto.”
“Proprio come me...” constatò Irene.
“Ma no” negai io. Infatti, iniziavo a rendermi conto che non la detestavo più come una volta.
Non che adesso l’amassi, certo, ma neanche l’odiavo.
Yuri fece di nuovo la sua comparsa nell’atrio.
Irene scattò sù, in piedi, e si accese una sigaretta. Sembrava nervosa. Prese a passeggiare avanti e indietro.
“Tutto bene, Andrea?” mi chiese Yu.
Quella bocca, dalle labbra così sottili, mi parve tanto sensuale. Non riuscivo a non rimanerne affascinato! Si accese una sigaretta anche lui.
Per un attimo immaginai di trovarmi nei panni di Paolo. Lo invidiavo. Yuri era davvero un bel ragazzo e io, per quanto l’avessi sempre negato a priori, ne ero sempre stato attratto.
“Sai,  un po’ mi dispiace che le cose fra noi non siano andate come speravo. Se solo fossero andate in un certo modo...” prese a dire, come parlando tra sè. Aspirava con gusto il tabacco da quella marlboro rossa. Avrei voluto essere quella sigaretta. Invidiavo quella sigaretta del cavolo!
“Lo vuoi un caffè?”
“S-sì...” balbettai, riprendendomi da quei pensieri. Il caffè della macchinetta a gettoni non era il massimo, ma se era Yuri ad offrirmelo era mille volte meglio di un espresso del bar.
Quando mi porse il bicchierino di carta lo ringraziai sorridendo. Mi piaceva Yuri, nonostante fosse il ragazzo di Paolo e nonostante li avessi visti fare sesso. E nonostante io non ritenessi assolutamente di essere gay...!


Tornai verso la macchina. Ormai si era fatto giorno, già da un paio d’ore. C’era il tempo per un ultimo ricordo prima d’imboccare di nuovo l’autostrada per Ferrara.
Un ultimo ricordo, il più desolante: Mia madre che cancella per sempre mio padre!
E io vorrei tanto riuscire a cancellare quel giorno x di luglio dell’anno x in cui mia madre si è unita in matrimonio con il figlio dei Pedrini. Quel giorno x in cui solo Paolo sembrava conoscere così bene, come del resto era sempre stato, il mio stato d’animo. Quel giorno in cui ho arretrato di qualche passo nella mia vita e ho chiesto perdono a mio padre per la scelta egoistica di mia mamma. Quel giorno in cui per l’ennesima volta ho pensato che sarebbe stato decisamente meglio non mi fossi risvegliato dal coma, se sarei dovuto esser testimone di tutto questo...








                                                          Ultimo capitolo



Bologna, 23 marzo 2004. Fuori dalla finestra c’è una notte stellata esattamente come quella notte di tre anni fa: La notte in cui rividi Paolo prima che si trasferisse a Bologna con Yuri. La notte che dopo aver guidato fino a Bologna, avevo proseguito fino a Rimini. La notte in cui avevo rivissuto con la mente un viaggio attraverso i momenti più importanti della mia adolescenza trascorsa con Paolo.
Avevo scelto Rimini perché ne avevo un caro e nostalgico ricordo di vacanze estive trascorse nell’hotel di mio zio. Spesso anche Paolo era stato nostro ospite.
Vivo anch’io a Bologna adesso. Condivido un appartamento con due studenti universitari: abbiamo camere separate e bagno e cucina in comune.
Lavoro in un bar fino a notte tarda. La mattina dormo fino a mezzogiorno passato. Il pomeriggio sto a cazzeggiare facendo su e giù per Via Indipendenza, come un idiota, fino a che alle sette non attacco a lavorare. Abito in questa città già da due anni, nonostante questo non mi sono più fatto vivo nè con Paolo nè con Yuri. Loro certo mi credono ancora a Ferrara.  Vorrei rivedere almeno Paolo. Spesso sono tentato di chiamarlo per incontrarci, ma poi non lo faccio. Lui, del resto, anche se volesse cercarmi non mi troverebbe: Ho cambiato numero di cellulare, e mia madre dopo che si è risposata è andata a vivere con Giorgio. Non credo abbia modo di rintracciarmi.
Ho scritto un racconto: “Notti”. L’ho scritto tutto completamente al computer, anche se dicevo sempre di preferire scrivere a mano con la cara vecchia bic. Appena comprerò una stampante, ne farò una copia cartacea e cancellerò il file in memoria. Poi, scenderò giù in strada. Farò la cosa più giusta, ne sono convinto: C’è un invitante cassonetto giallo per la raccolta di carta e cartone che attende il mio manoscritto. Almeno salverà la vita di un albero!
Il suono del campanello interrompe il mio delirio.
E’ Giacomo, uno dei ragazzi che vive con me. Mi crolla addosso, sfinito. Lo aiuto ad entrare in casa. Ha il volto completamente pesto.
“Ho fatto a pugni” dice, tentando di sorridere con quel labbro spaccato, “le ho prese” si sforza di sorridere.
“Ma cos’è successo?” gli domando, mentre vado a prendere del disinfettante e un panno pulito.
“Un tizio stava importunando la mia ragazza, quel bastardo!”
“Non sapevo avessi una ragazza.”
“Viviamo sotto lo stesso tetto e non sappiamo quasi niente di noi, non ti sembra assurdo? D’altronde tu rincasi a notte fonda, per questo non abbiamo mai avuto molte occasioni per parlare...”
“Sì, deve essere così” rispondo io, in tono vago. “Ci tieni molto a questa ragazza, ridurti così... Io non so se l’avrei difesa come hai fatto tu...”
“Ce l’hai la ragazza?”
Gli ho fatto cenno di no con la testa.







“Come mai? Sei molto carino, non dovresti aver problemi con le donne” sostiene lui.
“Sono finocchio” dichiaro serio, ma mento, e Giacomo lo capisce immediatamente.
“Non farmi ridere, accidenti a te, le ferite mi fanno ancora più male. La pelle mi tira da matti, mi sembra di morire!”
“Sai, conoscevo una ragazza che avrebbe sicuramente fatto a botte per difendermi!” ho detto ridendo.
“Per difendere te? Lei? Caspita, doveva essere un bel tipo! E dov’è adesso?”
“A Bologna.”
“A Bologna?” mi domanda sorpreso. “Quindi la vedi tutt’ora...”
“Non ci vediamo da cinque anni, da quando lei è venuta a vivere qui col suo fidanzato. Non me la sento proprio di telefonarle...”
“Ne parli come se ne avessi nostalgia, non l’hai dimenticata vero? Com’è che è finita tra di voi? Se non sono troppo indiscreto...”
“Sono stato io, perchè non avrebbe mai potuto funzionare...”gli dico, disinfettandogli le ferite sul volto. Mi ricorda Paolo, non so bene perchè, forse per il suo carattere irruento.
“Brucia! Cazzo, cerca d’esser più delicato!” mi ha urlato Giacomo per il dolore della medicazione.
“Ci proverò...”
“E tu perchè sei venuto a vivere a Bologna?”
“Ferrara aveva iniziato già da molto tempo ad andarmi stretta. Avevo semplicemente voglia di cambiare aria.”
“Lo dici come uno che è scappato da qualcosa.”
“Da molte cose, per la verità...” ho ammesso, abbassando gli occhi.
“Stavi scrivendo prima che arrivassi io? Che cosa?”
“Un racconto.”
“L’altro giorno ha chiamato una certa Irene che ti cercava, scusa mi era passato di mente...”
“Irene...? Davvero?!”
“Sei scappato anche da lei?”
“No, piuttosto il contrario. Vivevamo insieme, l’ho aiutata per più di un anno. L’ho ospitata a casa mia, e poi un bel giorno... Mah, donne!”
I ricordi di quel periodo riaffiorano alla mia mente...
Gli Y.M.I.F. avevano da poco firmato un contratto con una nuova casa discografica. Il loro nuovo album aveva riscosso un successo notevole, vendendo ben diecimila copie in solo una settimana dalla sua uscita nei negozi.
I ragazzi erano impegnati in un tour nazionale che li vedeva spesso lontani da Ferrara.
Irene sembrava preoccupata per qualcosa, ma evitava in tutti i modi di parlarne con me. Si stava allontanando, non non riuscivo ad impedirlo. Un giorno finimmo per litigare di brutto e quasi arrivammo alle mani. Fu il provvidenziale arrivo di Fabrizio a fermarci.
Io avevo lasciato il lavoro al Caprice e adesso lavoravo nel bar che mia zia Alina, sorella di mia madre, aveva preso in gestione. Io ero abbastanza entusiasta del cambiamento e poi con lei ero sempre andato d’accordo, più che con mia madre.
Mia madre...






Non la vedevo dal giorno che si era risposata ed era andata a vivere con Giorgio. Io ero rimasto nel vecchio appartamento. Erano lì tutti i miei ricordi più cari dell’infanzia trascorsa con mio padre. Mi ero ostinato a non voler lasciare quella casa. La mamma dapprima contrariata, aveva infine ceduto. Mi ero perfino offerto di pagarle l’affitto mensilmente. Non avrei permesso che vendesse la casa che papà aveva ricevuto in eredità dai suoi genitori. La casa che una volta era stata dei miei nonni. La casa che aveva visto la mia famiglia felice per tredici anni. La nostra casa!



“Esci con Irene, non è così?”
“E se anche fosse?”
“Non ti sei accorto di niente ultimamente? Non vedi che è strana...”
“Non mi sembra proprio.”
“Possibile tu non riesca mai a vedere al di là di te stesso!” mi rimproverava duramente Paolo. Cosa c’era che non andava in Irene? Sì, che mi ero accorto che si comportava diversamente dal solito.
Erano passati già due anni dalla sera in cui avevo trascinato Irene nel bagno e
E avevo fatto quello che avevo fatto.
“Ma a cosa pensi? Ti stai estraniando di nuovo...!” mi rimproverò Paolo.
Eravamo seduti al tavolo di un pub, davanti a due birre scure. Ritenni che quello era il momento giusto per confidargli un paio di cose che gli avevo tenuto nascosto troppo a lungo.
“Ti ricordi quando facevamo il gioco dei segreti? Usavi sempre quel mezzo per sapere i fatti miei...”
“Non vorrai chiedermi qualcosa di personale che riguarda Yuri, spero!” si allarmò lui.
“Figurati, non ci tengo certo a sapere le porcherie che combini con quello!” m’irritai io. “Voglio giocare, se non ti dispiace, e vorrei che iniziassi tu ad interrogare me” dichiarai.
Paolo sembrava veramente sorpreso da quella mia richiesta.
“Non parliamo più come una volta, non ci confidiamo più tra noi... Io sento il bisogno di rivelarti delle cose che non mi permettono di vivere in pace con me stesso” ammisi, scrutando dentro i suoi occhi curioso di vedere la sua reazione.
“Abbiamo quasi vent’anni... Che problema c’è a parlare tranquillamente tra di noi? Dai, coraggio, ti ascolto.”
“Ti ricordi la Vannini?”
“La Vannini...?!”
Il tono della sua voce sembrava preoccupato. Sicuramente Paolo aveva intuito che l’argomento si faceva serio. Non era più solo uno stupido gioco.
“La mia ammissione in terza... Ecco, vedi, io... Insomma... Lei mi disse mi avrebbe aiutato se io...”
“Ma che diavolo stai dicendo...?” si alterava il ragazzo. “Che cazzo vuoi dire?!”
“Abbassa la voce, ti prego.”
“L’ammissione... ma di cosa cazzo parli?!”






Bevvi la birra che mi rimaneva ed uscimmo. La mia macchina non era lontana. La raggiungemmo. Una volta all’interno della vettura riprendemmo a parlare. Parlare...?
“Dovevo dirtelo, mi portavo dentro questa cosa da troppi anni!” mugolai, battendo per due volte il pugno sul petto di Paolo. Mi comportavo da perfetto stupido.
“Hai scopato con la Vannini! Cazzo, non riesco a crederci! E lei... che persona schifosa! Non so cosa mi trattenga da prenderti a schiaffi, tu che tanto disprezzavi me e Yuri... con quale diritto?! Tu, tu che ti sei venduto ad una professoressa per essere ammesso in terza media! Dimmi, chi è la persona più schifosa tra noi? Eh, chi è la persona da disprezzare?! Cazzo, dimmelo! Che ipocrita che sei...”
“Non avevo scelta, non ce l’avrei mai fatta ad esser promosso. Se venivo bocciato mi sarei anche dovuto separare da te!”
“Tu non l’hai fatto per questo, ma per te stesso. L’hai fatto per non sentirti inferiore agli altri, ecco tutto. Io non c’entro...”
“Mi dispiace non avertelo detto prima.”
“Quella stronza della Vannini, con un ragazzino! Che razza di schifosa!”
Appoggiai una mano sulla sua gamba. Non mi avrebbe perdonato, immaginavo. E ancora non gli avevo detto  quello che era successo con Irene quella sera al Dome.
“Adesso te lo dico io un segreto!” annunciò Paolo. “Ogni notte ti sogno, capisci? Capisci cosa intendo, vero? Perchè, maledetto te, io sono ancora innamorato di quello stronzo che è andato a letto con la sua insegnante di lettere alle medie!”
“Stai con Yuri, pur pensando sempre a me? E questa non sarebbe ipocrisìa?”
“Sta’ zitto o ti strozzo!” replicò lui, mentre mi stringeva le mani attorno al collo.
Cercai di invano di liberarmi, ma non mollava. Poi, allentò la presa. Abbassando una mano la fece scivolare tra le mie gambe.
“Non toccarmi!” gridai.
A quelle parole ritirò la mano e si voltò verso il finestrino. Mi chiese scusa. Era impacciato.
“Scendi!” ordinai. “Scendi, tornatene a piedi.”
Paolo obbedì alla mia richiesta. Una volta a terra, si voltò verso di me salutandomi piano.
“Non permetterti mai più di fare una cosa del genere. E poi... io sto con Irene.”
Era chiaro, mentivo, ma volevo che Paolo ci credesse. In realtà io frequentavo sul serio Irene, ma non avevamo più fatto sesso da quella volta. Nè il sesso nè tanto meno l’amore. Niente di niente.


“Andrea, sono un cretino! Ehi, Andrea, ma a cosa stai pensando? Andrea...!” mi richiama Giacomo, riportandomi al presente.
“Ah, scusa, pensavo a quella ragazza di cui di ho detto poco fa” confessai sorridendo tristemente.
“Quella di cui sei ancora innamorato? E come si chiama?”
“P.” risposi vago. Ancora innamorato? Io innamorato di P.?!
“E che nome sarebbe? E’ un abbreviativo?”
“Già, esatto.”







Erano già le quattro del mattino. La notte era ancora stellata.
“E quella Irene?”
Quella Irene, già...


“Dov’è finita Irene?” chiedeva spazientito Yuri.
“L’ho vista andare al bagno...”
Irene stava male da giorni, aveva continuamente la nausea e spesso vomitava.
Andai a cercarla in bagno. Si stava sistemando il trucco davanti allo specchio.
“Come ti senti?”
“Andrea... sono incinta, dovrò dirlo anche agli altri prima o poi.”
“Incinta? E di chi...? Sai chi è il padre almeno?”
“Idiota, certo che lo so. Il padre ha la sua vita, però, e nella sua vita non c’è posto per me. Sono completamente sola...”
“Ti vedi con un uomo allora? Non lo sapevo...”
“Tanto vale che te lo dica. Si tratta di Yuri. E’ l’unico con cui ho rapporti sessuali da un anno a questa parte, non ci sono dubbi che il bambino è suo.”
“Cazzo...”
“Sei dispiaciuto per Paolo, eh? Ma non preoccuparti, non mi metterò tra loro. Yuri non starebbe mai con me, mi ha confidato di star cercando un appartamento dove andare a vivere con Paolo. Io non ho chance. Tra breve dovrò lasciare il gruppo...”
“Abbandonare gli Y.M.I.F.? Sei sicura di volerlo fare?”
“Sono costretta” rispose, prendendo a singhiozzare. Mi gettò le braccia al collo, allora l’abbracciai stringendola forte a me. “Andrea, dimentichiamo di esser nemici per una volta... Io ho bisogno di te, non abbandonarmi!” fu la richiesta disperata di aiuto della ragazza che sempre si era presa gioco di me. Certo che non l’avrei abbandonata a sè stessa. Desideravo però che parlasse con Yuri, che lo mettesse al corrente della situazione, anche se forse questo avrebbe messo in pericolo la felicità di Paolo.
La stringevo tra le braccia, e non so per quale motivo avevo la sensazione di abbracciare P.
Quanto mi sarebbe piaciuto poter stare così con P., senza farmene nessun problema. Invece i problemi c’erano eccome. P. non esisteva per quella che io avevo finito per credere.
P. non era P., cioè non era la ragazza di cui mi ero innamorato. Sì, perchè lei non era sul serio una ragazza! E questo era il problema principale.
Ancora non sapevo che dopo la confessione di Irene di quel giorno, la mia vita sarebbe cambiata notevolmente.
Avevo lasciato il lavoro al Caprice e lavoravo nel bar di mia zia. Irene, senza dare spiegazioni aveva mollato gli Y.M.I.F. e mi dava una mano al bar. Era profondamente cambiata: sia nell’aspetto fisico che nel carattere.
Si era tagliata cortissimi i lunghi capelli e se li era fatti neri. Portava occhiali da vista, al posto delle lenti a contatto, con una spessa montatura azzurra. Insomma, era veramente irriconoscibile! Nessun cliente del bar l’aveva riconosciuta, del resto anch’io stentavo a credere fosse la stessa donna fatale che fino a poco tempo prima suonava le tastiere nel gruppo di Yuri.
Una sera, verso l’ora di chiusura del bar Paolo passò a trovarmi. Non ci vedevamo da sei mesi. Sinceramente trovarmelo davanti non fu assolutamente una bella sorpresa! Sembrava avere ancora lo sguardo accusatorio dell’ultima volta che diceva: “Hai scopato con la Vannini!” Era terribile. Guardò Irene incredulo, ma la riconobbe. Notò anche il suo “pancione” e mi chiese spiegazioni. Io mi limitai a rispondergli che non ero il padre. Tagliai lì.
“Come stai?” mi domandò.
Mi sforzai di sorridergli, come niente fosse ma
Sei mesi. Erano passati sei mesi!
“Sto bene, grazie. Irene e io...”
“Io e Andrea viviamo assieme” spiegò lei, intromettendosi, “lui mi ha gentilmente ospitata in casa sua dal momento che io ho lasciato quella dei miei genitori adottivi... Non volevo essere troppo di peso per loro, oppure... avevo vergogna.  Sì, penso che la verità sia questa. Sono scappata, da tutti... dagli Y.M.I.F.... da Yuri... perchè sono una vigliacca e una stupida!”
“Scusa, Andrea, vorrei parlarti in privato. Ci scuseresti Irene, usciamo solo un attimo.”
“Fate pure.”
Quando fummo fuori, Paolo mi disse che lei sembrava totalmente un’altra persona.
“Dimmi, cosa provi per lei?”
“E’ una situazione delicata...”
“Lo so. Ti ho chiesto se l’ami oppure sei solo spinto da uno smodato senso di altruismo...! Di chi è il bambino?”
Ecco la domanda che non volevo sentire. La domanda fatidica. La domanda che
“Perchè non lo chiedi direttamente a lei?”
“Volevo solo vedere se eri in grado di essere sincero con me oppure...”
“Che significa?!”
“Significa che io conosco già la risposta... Ora puoi sfottermi a dovere! Avanti, divertiti a ridere dell’idiota. Io sapevo che loro...”
“Se le cose stanno così sei veramente un idiota... Sei peggio di me!”
“Eh, no” scherzò lui, “per esser peggiori di te occorre veramente studiarci a fondo!”
“Perchè sei venuto al bar? Mi serbi ancora rancore per via della storia della Vannini, non è vero?” sorrisi, amaramente. Trovavo il coraggio di guardarlo negli occhi e mi sembrava incredibile.
“Un po’...” sostenne Paolo. “Sono qui perchè avevo bisogno della tua comprensione, avevo bisogno di un amico... del mio migliore amico.” E sottolineò “migliore”.
“Ho detto a mio padre di Yuri... Sono un po’ confuso. Penso d’aver fatto male... l’amore che sento per lui, e anche per te, è sbagliato lo so...”
“Lo sai...?”
“Vorresti andare con P. a pattinare a Bologna questa domenica?”
Spalancai gli occhi per la sorpresa. Con P.?! Ma parlava sul serio?
E così quella volta rividi P., per l’ultima volta. Rividi la mia migliore amica, e la ragazza che mi piaceva un tempo.








“Ehi, sogni ad occhi aperti?” mi chiede Giacomo, divertito.
“Sono stanco, se non ti dispiace...”
Giacomo comprende ed esce dalla mia stanza. Guardo quella squallida camera. La scrivania, il computer, i vestiti buttati disordinatamente sul letto. Mi sento così tremendamente solo.
Ho una stramaledetta voglia di vedere Paolo. Ultimamente faccio spesso sogni su di lui.
Non l’avevo ancora rivissuto con i ricordi il mio ultimo periodo felice con Paolo. Era stato prima della mia confessione sulla Vannini, prima che Irene rimanesse incinta, quando ancora lavoravo al Caprice...

“Mio padre mi ha sbattuto fuori di casa, nel vero senso della parola. Mi ha scaraventato giù dalle scale. Fortuna, non mi sono fatto niente... Ho solo urtato una spalla finendo sul pianerottolo.”
“Sicuro di non esserti rotto o slogato niente?” chiesi preoccupato.
“No, tranquillo. Mi sento decisamente più sollevato, adesso. Non m’importa di ciò che pensa mio padre, al diavolo!”
“Sì, ma dove andrai adesso?”
“Pensavo che magari tu avresti potuto aiutarmi, vivi da solo in un appartamento abbastanza grande...”
“No, non se ne parla... Peggiorerebbe la situazione tra noi. E adesso che i tuoi sono a conoscienza della tua omosessualità... cosa penserebbero di me?! Mi dispiace ma non me la sento.”
“Mi cerco un lavoretto part time e ti pago regolarmente l’affitto. Ho bisogno del favore di un amico, almeno fino a quando io e Yuri non ci trasferiremo insieme in un’altra casa. Il suo palazzo è sempre preso d’assedio dalle sue fans, non posso comprometterlo facendomi vedere là con lui.”
“Ascolta...”
“Che idiota! Aver creduto che tu...” rise di sè stesso. Mi voltò le spalle e fece per andarsene.
“Ma dove vai? Prendi la tua roba, dai, prima che ci ripensi.”
Come potevo abbandonarlo nel momento più difficile che avesse mai attraversato? Aveva trovato il coraggio per dire la verità a suo padre, dovevo essere fiero di lui.
“Scusami, Paolo. Sono un pessimo amico, davvero.”
“Sì,” scherzò lui, “il peggiore egoista che abbia mai conosciuto!”
Da quel giorno iniziò un breve periodo di convivenza in cui per la prima volta aprii gli occhi su tante cose che mi ero sempre rifiutato di vedere.
Paolo mi trascinò dentro il suo mondo. Mi presentò i suoi amici, quasi tutti clienti del disco pub dove lavoravo. All’inizio mi sentivo a disagio tra loro, ma poco a poco riuscii ad inserirmi nel gruppo.
Spesso cenavamo tutti insieme in un ristorante a poche centinaia di metri dal Caprice.  Mentre mangiavamo scorgevo le cameriere vicino alla cucina ridere tra loro ammiccando con la testa al nostro tavolo. Ridevano di noi. Avevano certo fiutato che si trattava di un bel gruppetto di finocchi e ci sfottevano alla grande. Quel comportamento mi dava ai nervi. Ma






che diavolo volevano da noi quelle stupide galline maleducate?! Io non ero gay, ma essendo in loro compagnia ero anch’io considerato tale. Tuttavia a questo non davo troppa importanza, non adesso, la cosa che più mi mandava in bestia era quell’aria strafottente con cui ci guardavano. I loro sguardi offensivi su di noi. Quasi avessero l’indice puntato contro di noi e ci accusassero: “Froci! Froci! Froci!”
Tornando a casa non potevo evitare di pensare a chi ci aveva deriso per tutta la cena.
“Quelle stupide cameriere... hai visto?”
“Ho imparato a non vedere... Esistono ancora i pregiudizi e sembra che i gay suscitino l’ilarità di molta gente.”
“Ma come puoi sopportare?”
“Ad esser sincero non è facile, ma io cerco di tirare avanti per la strada che ho scelto di percorrere. Non sono solo, e questo mi dà fiducia.”
Il suo mondo. Eccolo là il suo mondo! Un mondo che si scontra continuamente contro un mondo cieco ed egoista. Un mondo che lotta per sopravvivere alla meschinità, ai soprusi, alla crudeltà di quel mondo che si autoproclama perbenista, sputa sentenze, e ci giudica continuamente. 
“Con quale diritto ci disprezzano, ci umiliano, ridono di noi?”


Ieri era il mio ventottesimo compleanno. Non l’ho detto ai miei coinquilini. Neppure a Giacomo, sebbene ieri notte abbiamo parlato entrando un po’ in confidenza.
Mi sono svegliato molto presto, non riuscivo a prender sonno. Ho dormito solo un paio d’ore.
Ho stampato tutto il racconto, dopodichè sono uscito nell’aria frizzante del primo mattino. Tenevo il mio manoscritto tra le mani. Ho preso l’autobus che porta fino a Via Stalingrado. Sono sceso. Ho attraversato la piazza e mi sono diretto verso uno di quei bruttissimi palazzi in cemento armato. Ero deciso a lasciare il racconto nella buca delle lettere, al numero 4 interno b. Ho suonato un campanello a caso, dicendo “pubblicità in cassetta”, e sono entrato nell’atrio della palazzina. Ho letto il cognome di Yuri sopra una delle cassette in legno...

“Andrò a vivere con Yu al più presto, così potrai tornare a vivere la tua vita tranquilla senza più avermi in giro per casa. Stiamo cercando un appartamento più grande di quello dove lui vive attualmente. E poi casa sua è sempre assediata dalle ragazzine, lo sai no...”

Sì, ma era necessario che veniste fino a Bologna per vivere in pace? Mentre mi chiedo questo avvicino il manoscritto alla cassetta della posta, poi un ripensamento. Un improvviso ripensamento!
Esco in fretta dal palazzo e getto il racconto nel primo cassonetto che incontro. Cammino fino al Palanord, che adesso è completamente deserto. Qua e là rimasugli dell’ultimo concerto estivo tenutosi lì. Cammino tra cumuli d’immondizia. Più avanti, ad un centinaio di metri da me, sta passeggiando una figura con un cane.
“Ehi, Dylan, vieni qua!” richiama l’animale, l’uomo, che si stava allontanando. Credo di riconoscere la voce e poi... quel nome...






L’uomo fa dietro front ed io prontamente mi nascondo dietro gli alberi. Quando la figura mi passa vicino, mi accorgo che non si tratta di Paolo...
Quel ragazzo è Yuri!
Vorrei chiamarlo, uscire allo scoperto, ma non avrebbe senso. Non avrebbe alcun senso.
Che ci faccio qui? Ecco che di nuovo commetto stupidaggini, non crescerò mai!
Me ne torno a casa e trovo Giacomo sulla porta della mia stanza.
“Ti ero venuto a cercare perchè volevo ringraziarti per ieri notte... Ma dove te ne sei andato così presto?”
“Non riuscivo a dormire...”
“Ho fatto il caffè, vieni che lo prendiamo di là nella mia stanza” m’invita lui.
Sulla scrivania di camera sua scorgo un cd degli Y.M.I.F. e lui che si accorge che sto guardando  quell’album mi chiede se mi piacciono.
Ho in testa l’immagine di Yuri a spasso col cane. Quasi mi è impossibile pensare che quello sia il carismatico leader degli Y.M.I.F.
“Sì, mi piacciono...”
“Io sono un loro grandissimo ammiratore, soprattutto di Irene... I tempi in cui c’era lei nella band per me sono memorabili... e chi se la scorda una così! Stavo sempre sotto al palco!”
Quant’è piccolo il mondo, verrebbe da pensare. E così Giacomo non è altro che uno di quei cani ululanti che sbavavano alla vista delle mutandine di Irene.
“Tu sai che fine ha fatto?”
“Voci di corridoio la davano sposata e con prole...” scherza il ragazzo. “Comunque rispetto la sua decisione di voler vivere una vita normale. Ah, Irene... la donna dell’immaginario erotico di tutti noi fans! Tu cosa ne pensi?”
“Era solo una troietta che si divertiva a stuzzicare i suoi fans... L’odiavo! E comunque sembra che stesse con Yuri...”
“Lo penso anch’io.”
“Quello è il nuovo album?”
“Sì, se vuoi te lo presto.”
“O.k, grazie! Anch’io seguivo i loro concerti abbastanza assiduamente. Sono venuto a vederli anche qua a Bologna... Anch’io stavo sotto al palco...”
“Senti, ma quella tua Irene, invece, com’era?”
“Una gran stronza... Abbiamo abitato nello stesso appartamento per  più di un anno, fino a due anni fa, poi una bella mattina tornando dal lavoro la trovo tutta intenta a preparare le valige. Mi dice che ha ricevuto la telefonata di un amico, un certo Simone, mai sentito nominare prima di allora, che la invitava a trasferirsi da lui...”
“Stento a crederci, non dirmi che lei...”
“Esatto, se n’è andata come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ha detto si sarebbe fatta sentire nei giorni successivi, be’ sto ancora aspettando...”
“Ma scusa tre giorni fa ti ha chiamato sul cellulare, l’avevi dimenticato a casa ed ho risposto io, mi era passato di mente ma poi te l’ho riferito, no?”
“Giacomo, son passati due anni! Ma che cazzo vuole da me?! Non ti sembra assurdo! Quando ho provato a chiamarla non era mai raggiungibile... sicuramente ha cambiato numero! E







pensare che io le avevo anche dato quello mio nuovo che non ho dato neanche a mia madre!”
“Controlla sul cellulare, no? Il numero sarà rimasto in memoria...!”
“Lo trova divertente.  Io non ho voglia di giocare con quella matta!” grido, tirando fuori il telefonino dalla tasca dei pantaloni. Apro la finestra e lo scaravento giù in strada. Sono furioso. Basta! Fine del gioco!
“Dove sei stato stamattina?”
“Credevo d’aver ancora qualcosa da dire ad una persona. Qualcosa che non ero riuscito a dirgli tre anni fa, ma mi sbagliavo.”
La mia P. non c’era più ed io ero un ragazzo normale. Non avevo più niente da dire a Paolo. Più niente. Meglio lasciar tutto in sospeso. Meglio lasciar tutto come quella sera.
Perchè sono venuto a vivere a Bologna? Perchè proprio a Bologna? Perchè?

Spero non ti aspettassi di veder arrivare P. con la sua sexy mini gonna...!” esordì scherzando Paolo dopo avermi raggiunto sul luogo dell’appuntamento, davanti al Castello Estense.
Io però non risi, se quella era una battuta, e con tono piuttosto serio gli risposi che era lui che voleva salutare prima della sua partenza e non P. L’unica cosa che gli dispiaceva era averla fatta stare tanto male quando si frequentavano.
“Non darti troppa pena per lei. Ha trovato qualcuno che l’ama davvero, o almeno io è così che spero. Per quanto riguarda me spero di aver fatto la scelta giusta con la persona che amo. E questo è quanto”, sorrise, “ fine del gioco.”
Il ragazzino dall’aria tanto indifesa in realtà era sempre stato dotato di una personalità molto forte. Quel timido sguardo da bambina nascondeva un carattere davvero deciso. Una determinazione tale che talvolta quasi mi spaventava e che gli avevo invidiato in più di un’occasione. Adesso se ne andava a Bologna con la persona che amava, che aveva deciso di amare come sè stesso e non sotto le false sembianze di una ragazza. Andava a vivere con qualcuno che l’accettava per quel che era. Dopotutto, io non mi era innamorato di Paolo ma di P., la sua versione femminile, e alla fine la mia coscienza aveva preso per considerarli due persone ben distinte. Il tutto perchè rifiutavo l’idea di provare sentimenti che andavano contro natura. 
“Questo è il nostro indirizzo. Vieni quando vuoi, ci farà piacere” mi disse porgendomi un foglietto piegato in due. Quel parlare al plurale mi aveva un po’ turbato. Allungai la mano per prendere il bigliettino, ma me lo feci scivolare dalle dita. Entrambi ci chinammo per raccoglierlo e le nostre mani si toccarono. Fui colto da un incredibile imbarazzo e non potei non sentirmi un vero idiota. Tentavo di nascondere la vergogna provata a causa di quel contatto con la mano dell’amico, ma il rossore sul viso mi tradiva. Per qualche attimo fummo i due ragazzini che eravamo stati ai tempi delle medie. Ci fissavamo senza dire niente. Era uno spettacolo da voltastomaco nella mia testa che non riusciva a controllare le sue emozioni. Ero pietrificato. Paolo mi si avvicinò con la faccia. Io ancora non riusciva a muovermi. Se solo si fosse aperta una voragine sul suolo e fossi stato inghiottito al suo interno. Se solo non fossi stato un demente cronico, dannazione!
“So a cosa stai pensando” rise Paolo cercando di smorzare la tensione che si era creata,  “stai pensando qualcosa come se ci diamo solo un bacio potrò esser considerato comunque un omosessuale? Oh, è un grande interrogativo...” continuava a ridere, ma non con cattiveria.
“Io non...”
“Secondo me il solo fatto che tu faccia un pensiero del genere significa che hai degli istinti omosessuali repressi, caro mio!” constatava, con tono divertito il ragazzo.
“Cosa nei sai di quel che penso, scemo! Non hai il diritto di prenderti gioco di me così!”
“Be’, lasciamo stare. Scusa se non posso trattenermi oltre, ma ci sono ancora alcune cose che devo sbrigare prima di partire. Si sta facendo tardi. Ti saluto, Andrea... Ah, senza rancori?”
Io annuii con la testa.
“Mi fa piacere. Allora, ciao, stammi bene!” Lo disse con quel suo sorriso così dolce, il sorriso che mi piaceva tanto di P. Quel sorriso che tanto aveva turbato i miei pensieri. Quel sorriso così disarmante che ogni volta mi spiazzava e annullava la mia sana razionalità. Quel sorriso che adesso mi diceva addio.
“In bocca al lupo... per tutto!” augurai al mio carissimo amico.
“Crepi! ... E che crepi assieme a tutti i pregiudizi della gente!”
“Assieme a tutti i pregiudizi...!”