Capitolo quarto
Quando decisi di lasciare la scuola mia madre non la prese troppo bene, ma poi si rassegnò all’evidenza. Insomma, non ero proprio in grado di frequentare il liceo. Avevo notevoli difficoltà a ricordare tutto ciò che studiavo. Passavo serate, fino a tarda notte, sui libri, ma al mattino ricordavo poco o niente. La cosa che più mi preoccupava era che avevo vuoti di memoria anche nella vita di tutti i giorni. Non solo non ricordavo bene fatti successi prima di esser stato in coma, ma spesso avevo dei dubbi anche su quelli più recenti. Spesso mi capitava di confondere le cose realmente accadute con quelle magari soltanto immaginate. Spesso chiedevo conferma a Paolo. La cosa mi pesava enormemente, ma lui continuava a ripetermi di non dargli troppo importanza. Era lui il mio punto di riferimento, come d’altronde era sempre stato fin da piccoli.
Tornando a casa mi cadde lo sguardo sui libri di testo delle superiori. Che spreco! pensai. Così decisi di fare un salto alla libreria che teneva testi scolastici usati. Misi i soldi della vendita sul tavolo davanti a mia madre. Lei mi guardò con uno sguardo interrogativo.
“Ho rivenduto i libri, almeno così riprendiamo parte delle spese. Mi dispiace per l’iscrizione... quella nessuno ce la rimborserà.”
“Non importa” rispose con sguardo assente la donna. Fu tutto quello che disse, neanche un grazie. L’avevo comunque immaginato, be’ pazienza. Ultimamente non parlavamo quasi per niente. Mai che lei mi domandasse come mi trovavo al lavoro o che si interessasse di informarsi sulle mie amicizie. Mai niente. Niente di niente.
Una sera, mentre stavo lavando i piatti, perso nei miei pensieri mi rivolse la parola. Ruppe quell’odioso silenzio la sua triste voce. Ma quello che udirono le mie orecchie non mi piacque affatto. Mi chiedeva di passare il giorno di Natale con lei a casa dei Morini, la famiglia presso cui lavorava come collaboratrice domestica tre volte la settimana. Il giorno di
Natale con dei perfetti sconosciuti... ma perché?! La cosa non mi andava per niente, ma per non darle un dispiacere non riuscii a rifiutare la proposta. Avrei tanto desiderato passare il Natale da solo con lei, invece
Invece mi vedevo costretto a trascorrerlo con degli estranei.
Il 25 dicembre mia madre uscì di casa molto presto per aiutare i coniugi Morini a preparare il pranzo. Mentre mi dirigevo verso la loro abitazione fui tentato più volte di dargli buca, però poi pensavo allo sguardo dispiaciuto della mamma e proseguivo. Faceva maledettamente freddo. Io e Paolo ci eravamo sentiti per telefono un’ora prima. Io ero alquanto nervoso al pensiero di conoscere quella gente. Erano molto ricchi e questo mi faceva sentire ancora più a disagio. Paolo aveva cercato invano di tranquillizzarmi.
“Ci vediamo più tardi?” gli avevo chiesto speranzoso.
“D’accordo. Magari verso le quattro... Così me la filo dalla tavolata dei parenti pronti a giocare alla solita tombola natalizia! A più tardi!”
Ero purtroppo giunto a destinazione. Le tredici in punto. Suonai il campanello con l’indice tremante.
“Ciao, benvenuto!” mi accolse calorosamente un giovane dal volto sorridente. Sembrava il sorriso stampato su un depliant pubblicitario di offerte di qualche negozio. Pochi istanti per identificarlo: quello era il tizio che avevo visto tempo prima parlare con mia madre vicino casa nostra!
Chi diavolo era? In un attimo tutto mi apparì chiaro davanti. Eccolo lì: quello era il figlio dei Morini. E mia madre che ne aveva sempre parlato così “schifosamente” bene. Eccolo lì! Faccia da giovane perfettamente integrato nella società moderna. Uomo in carriera dal sorriso smagliante alla Durbans, a trentadue denti. Eccolo lì. Bello e ricco.
“Prego, entra. Io sono Giorgio, piacere” si presentò stringendomi la mano.
“Andrea, piacere”.
Il figlio dei Morini. Quello fu il nostro primo incontro. Per me una botta tra capo e collo. Una pugnalata alla schiena. E poi scoprii che mia madre lo frequentava già da qualche mese. Un ragazzo di appena venticinque anni. Dio, mia madre se la faceva con uno che aveva la stessa età di Yuri! Il mondo che mi si sgretolava sotto i piedi. E la voglia irrefrenabile di scoppiare a piangere davanti alla tomba di mio padre.
Avevo provato e riprovato nella mente la scusa che stavo poco bene e preferivo tornare a casa. Dopo aver mangiato tutti quei gustosi manicaretti preparati da mia madre e dalla signora Morini mi decisi ad aprir bocca, ma riuscii solo a dire che me ne andavo perché avevo fissato di vedermi con un amico. Praticamente finii per dirgli la pura e semplice verità. Li ringraziai e feci per andarmene. Giorgio mi accompagnò alla porta.
“Mi ha fatto piacere conoscerti. Ciao, a presto” mi salutò sorridendo.
“Ciao” risposi, freddamente. Potevo fingere e rispondergli con un: “anche a me a fatto piacere” recitato da bravo bambino, ma proprio non mi uscì dalla bocca una puttanata simile!
Ricambiai il suo sorriso con un mezzo sorriso forzato e me ne andai.
Paolo mi stava aspettando alla piazzetta vicino casa nostra, seduto sulla sella del suo motorino. Aveva lo sguardo interrogatorio che chiedeva “com’è andata?”
Scossi la testa, non avevo nessuna voglia di parlarne. Gli feci cenno di andare. Tolsi il
lucchetto al mio scooter e gli dissi di seguirmi.
“Aspetta, dove andiamo? Non ho molta benzina...”
“Non importa, non è molto lontano”
Dovevo andare assolutamente in un posto. Volevo passare il Natale con una persona!
Fermai il motorino davanti al cancello chiuso del cimitero.
“E’ chiuso. E’ logico, il giorno di Natale.”
“Lo immaginavo, ma non importa. Scavalchiamo” sostenni deciso.
“Eh?! Sei matto! Se ci beccano passeremo dei guai, non fare lo stupido.”
“E’ Natale, il custode sarà a festeggiare con tutta la famiglia. Chi vuoi che ci veda, dai, non abbandonarmi adesso!”
Paolo tentò inutilmente di convincermi a lasciar perdere. Ero fermamente deciso a trascorrere il Natale con mio padre e l’avrei fatto.
“Ma cos’è successo dai Morini?”
“Mia madre... se la fa con uno che ha quasi la metà dei suoi anni!” gli confidai tristemente.
“Cosa? E chi sarebbe?”
“Il figlio dei coniugi Morini. Dio, mi vien da vomitare se penso a quel tipo con la faccia da fotoromanzo e col sorriso da ebete. Spero che mio papà non veda mai come si è rincretinita la mamma. E’ veramente squallida la cosa...”
“Non starai esagerando?”
Non risposi. Eravamo ormai al di là del muro di cinta del camposanto. Avevamo scavalcato da un punto dove il muro era in parte crollato e quindi il passaggio agli intrusi era facilitato.
Era un paesaggio alquanto inquietante quello che si apriva davanti ai nostri occhi. Tutti quei lumini, la notte di Natale , potevano però sembrare tante candele che addobbavano quell’enorme distesa di terra. Questo pensiero mi rasserenò. Paolo aveva una gran fifa, invece. Ripeteva quanto quel lugubre scenario gli ricordasse la sceneggiatura di un fumetto horror stile Dylan Dog.
Quando mi trovai difronte alla tomba di mio padre, non esitai ad inginocchiarmi davanti alla fredda lapide di marmo. Paolo rimase più indietro di qualche passo. Non riuscii a trattenere le lacrime. Presi a singhiozzare, rumorosamente, senza riuscire a smettere.
“Potrebbero sentirci...” disse Paolo. Ma eravamo lontani dalla casa del guardiano.
Un rumore di foglie calpestate fece cacciare un urlo di terrore a Paolo.
“Ma sei impazzito!” gridai. Voltandomi in direzione del rumore scorsi un gatto.
“Un gatto...?! Dio, sono morto di paura!”
“Scemo!” lo rimproverai. “Mica avrai creduto si trattasse di uno zombi, spero!”
“Ma lo vedi in che razza di posto siamo?! Dove va quel gatto?”
Lo seguimmo con lo sguardo fino a vederlo entrare dentro un loculo vuoto, nella galleria alle nostre spalle. Incuriosito andai a vedere, seguito da Paolo ancora tremante per lo spavento. Illuminai l’interno con la torcia. Vidi qualcosa che mi apparve così bello da farmi invidia: un’allegra famigliola riunita insieme il giorno di Natale.
“Ha partorito i cuccioli qua dentro, vieni a vedere!” feci cenno a Paolo di raggiungermi.
“Moriranno di freddo, dobbiamo avvertire il custode!”
La scelta sul da farsi ci fece esitare. Poi, prendemmo la decisione che ci sembrò più saggia.
Eravamo pronti a rischiare, andando incontro alle conseguenze, rivelando la nostra presenza lì, ma avremmo salvato quei gattini da morte certa per assideramento.
La fortuna fu dalla nostra parte. Non ci andò male. Il custode mi riconobbe e ci ospitò in casa. Ci offrirono del cioccolato caldo per riscaldarci. Guardando i gattini in una cesta vicino al fuoco del camino non potevo fare a meno di provare una grande gioia. Tornammo a casa verso l’ora di cena. Congelati , col motorino. Il giorno dopo eravamo entrambi a letto con l’influenza.
La febbre non voleva saperne di scendere. Ero in pensiero per i micini. Avrei voluto sapere come stavano, ma non potevo muovermi da letto. Rimasi malato per una settimana. Paolo guarì prima di me e venne a trovarmi, un pomeriggio che mia madre era al lavoro.
Non so bene perché ma gli ricordai di quella sera che litigammo al concerto di Yuri. Quando litigammo per Yuri. Quando detti l’ennesima riprova del mio smodato, incurabile, egoismo. Gli chiesi scusa, come del resto avevo fatto circa tre mesi dopo, in agosto, quando ci eravamo incontrati per caso vicino casa nostra. Paolo non mi serbava rancore. Mi confidò di essergli mancato per tutto quel tempo che non ci eravamo visti, solo che, per non peggiorare la situazione aveva aspettato che fossi io a rifarmi vivo. Del resto avevo sbagliato io. Come sempre.
“Come va con Yuri?” mi feci coraggio a chiedergli.
“Abbastanza bene” rispose un po’ vago il ragazzo.
“Come abbastanza?”
“Ultimamente non ci vediamo molto spesso per i suoi impegni di lavoro. Stanno chiusi in studio di registrazione per interi pomeriggi! Ad ogni modo almeno posso essere me stesso, non devo nascondermi dietro le sembianze di una ragazza. A lui vado bene con questo aspetto, l’aspetto di un ragazzo. Per me questo è già molto” sostenne.
“Sono contento per te...”
Paolo mi sorrise malizioso. Era uno sguardo che detestavo. Era lo sguardo con cui mi guardava sempre la Vannini. Uno sguardo che mi incuteva timore. Distolsi gli occhi dai suoi.
“Sai, io credo che dovrei fartela pagare per tutto quello che mi hai fatto” sostenne in tono scherzoso, almeno credo. “Adesso, sei così privo di difese... Stai già a letto, sarebbe uno scherzo immobilizzarti e approfittarmi di te!” rise.
“Piantala di dire stronzate!”
Paolo continuava a fissarmi con uno sguardo penetrante. Uno sguardo che non ero in grado di sostenere. Uno sguardo al quale mi piegavo.
“Be’, è meglio che me ne vada. Se rimango ancora un minuto di più potrei veramente saltarti addosso!” dichiarò con pungente ironia.
Davvero scherzava? Ma fino a che punto...?
Era seduto sul letto di fianco a me. La sua vicinanza iniziava a turbarmi. Come sempre non riuscivo a capire fino in fondo quello che davvero provavo per lui.
“Aspetta, ti accompagno alla porta.”
Feci per alzarmi dal letto, ma la malattia mi aveva indebolito e le gambe non mi ressero. La testa prese a girarmi vertiginosamente.
“Scusa, non ce la faccio a...” riuscii a dire con un filo di voce, mentre perdevo i sensi tra
quelle braccia che invano tentavano di sorreggermi.
Bianco, soltanto bianco. E la voce di Paolo che mi chiamava e a cui non riuscivo a rispondere.
“Vado a prenderti dello zucchero!” disse, precipitandosi in cucina.
Tornò con un bicchiere d’acqua zuccherata.
“Bevi” disse, poggiandomi il bicchiere alle labbra. “Va meglio?” mi chiese in tono preoccupato.
“Meglio...” bisbigliai.
“Stai riprendendo colore... Mettiti sul letto, aiutati anche tu... da solo non ce la faccio... sei pesante!”
Mi accompagnò sul letto, facendomi sdraiare, e mi sollevò i piedi, per far riprendere la circolazione sanguigna.
“Inizi a sentirti meglio?”
“Sì, scusa...”
“Non devi alzarti, sei rimasto a letto per giorni... è normale che il tuo fisico si sia indebolito... Aspetterò che rientri tua madre, non posso lasciarti così.”
“Avvicinati...” sussurrai, facendogli cenno con la mano di venirmi accanto. Si sdraiò al mio fianco e avvicinò la sua faccia alla mia.
“Che c’è?” mi domandò.
“Grazie di tutto” risposi, appoggiando la testa sulla sua spalla.
Adesso so che quei momenti non torneranno mai più. Eravamo così vicini. Eppure ancora adesso mi domando se provassi qualcosa di simile all’amore per quel ragazzo che sempre mi era stato accanto, soprattutto nei momenti difficili. Mi mostravo forte, davanti agli altri, ma non lo ero affatto. Ero pieno di incertezze, pieno di paure, e questo Paolo lo sapeva benissimo. L’ avevo sempre ammirato per la sua determinazione. Sembrava un ragazzino tanto indifeso, ma in realtà era molto più forte di me. Il debole ero io, non Paolo.
Al fast food avevo fatto delle nuove amicizie. L’orizzonte delle mie conoscenze si stava allargando. Incredibilmente ciò stupiva anche me. Il mio mondo non era più solo e soltanto Paolo.
Già, Paolo...
Paolo aveva preso ad uscire con Yuri. La cosa mi rodeva un po’ ad esser sincero.
“L’ultimo dell’anno gli Y.M.I.F. terranno un concerto al Noise, verrai anche tu mi auguro. Sai, Yuri mi ha pregato di insistere, nel caso tu non avessi mostrato l’intenzione di venirci” sostenne Paolo.
“Yuri?” chiesi stupito.
Che sorpresa, non me l’aspettavo proprio. Non ci vedevamo da tantissimo. C’ero rimasto molto male quando avevo saputo che usciva con Paolo. E poi avevo litigato con Paolo, a causa di Yuri. E non lo vedevo da quel concerto.
A rivederla col senno di poi, penso sia stato davvero un bene aver trascorso quell’ultimo dell’anno tutti insieme.
Il Noise strapieno. Tutto esaurito. Ragazzi scatenati sotto il palco. E Irene bellissima...! Quella sera non potetti non notarlo. Era meravigliosa con indosso quell’abito attillato di seta nera. Non l’avevo mai vista sotto quella luce. Era una ragazza che faceva perdere la testa a molti... E quella ragazza dopo il concerto si appartò con me.
Stringevamo due cocktail in mano. Brindammo. Mancavano ancora quaranta minuti a mezzanotte. Salimmo sul tetto del Noise. Da lì potevamo ammirare tutta la città illuminata a festa.
“Ce l’hai ancora con Yuri?”
“No, non ce l’ho mai avuta con lui. E smettila con ‘sta storia!”
“Guarda laggiù, Andrea. Da qui la vista è bellissima. Se mi buttassi adesso, nell’oscurità... non sarebbe bellissimo?! Hai mai pensato di farla finita?”
“Cosa dici? Stai bene? Mi sembri strana più del solito, stasera...”
“Non dirmi che non ti è mai capitato di avere il desiderio di sparire per sempre? Sei davvero soddisfatto della tua vita?”
“Irene... smettila di bere, e allontanati dalla ringhiera. Non sei in te, falla finita di dire stronzate!”
“Rispondimi...! Hai mai desiderato morire?”
“Sì...” mi vidi costretto a confessarle, alla fine. “Quando è morto mio padre... avrei voluto seguirlo. Gli volevo molto bene. Ho addirittura pensato che preferivo esser morto io... per non lasciare sola mia madre. Sono certo che anche lei avrebbe preferito aver perso me piuttosto che lui...”
“Lo immaginavo... Comunque secondo me sbagli riguardo tua madre. Spesso mi chiedo perchè il destino mi ha portata fino a qui... Sai, io non sono nata in Italia. Sono stata adottata quand’ero molto piccola. Sono russa, di un paesino vicino Mosca. In realtà il mio vero nome è Irina, non l’avresti detto eh?”
“Sinceramente no, mi hai preso proprio alla sprovvista. Certo che i tuoi lineamenti, adesso che ci faccio caso, potrebbero sembrare di una ragazza dell’est europeo...”
“Allora lo facciamo insieme?”
“Eh? Ma cosa?”
“Buttarci giù!”
“Non scherzare, ora basta! E poi se ti butti da questa misera altezza potresti anche non morire sul colpo... Che faresti se dovessi rimanere paralizzata? Sei proprio scema, guarda...”
“Hai ragione, allora mi stai dicendo che devo trovarmi un edificio più alto?!”
“Ma no!” replicai.
Lei scoppiò a ridere. Buttò giù un altro sorso del cocktail.
“Smettila con quella roba! Dovete tornare sul palco per il conto alla rovescia e tu sei in condizioni pessime!” la rimproverai, trascinandola via dalla ringhiera.
Mi faceva paura. Temevo veramente che potesse gettarsi nel vuoto. Era ubriaca, non ragionava.
“Ma che diavolo ci fate quassù?!” tuonò la voce di Fabrizio alle nostre spalle. “Aspettiamo
soltanto te!” gridò portando via Irene per un braccio.
Lei si voltò indietro, verso di me, e sorrise. Un sorriso dolce che mai più mi rivolse.
Mezzanotte. Gli Y.M.I.F. stapparono lo spumante sul palco del Noise. Grida. Eravamo tutti ubriachi. Seguii Paolo e Yuri con lo sguardo e li vidi sparire nel backstage.
Irene tornò da me. Ci appartammo su un divanetto nel privè, lontano dagli sguardi dei fans. Per la prima volta in vita mia un desiderio mai provato prima fece capolino nella mia testa: Avrei voluto toccarla, metterle le mani dappertutto! Irene mi piaceva, credo.
Mi piaceva o era tutto soltanto dettato dall’alcool che avevo in corpo?
Stava sopra di me. Ero eccitato come mai mi era successo. Avevamo bevuto davvero troppo. Irene mi si addormentò addosso. Mi lasciai andare e chiusi gli occhi. Il sonno prese il sopravvento anche su di me.
Era il giorno del mio sedicesimo compleanno. Non mi andava di festeggiare. Mi bastava vedere Paolo. Degli altri non m’importava poi molto. Lui era perfino disposto a vestire i panni di P., come regalo. Io risi e gli dissi che mi bastava stare in compagnia del mio migliore amico.
Da giorni ero ossessionato da qualcosa che non sapevo spiegarmi. Forse si trattava ancora di una forma di egoismo nei confronti di Paolo...
Avevo preso un giorno libero dal lavoro. Andammo a Bologna, col treno. Io e Paolo. Per la prima volta andai a Bologna assieme a Paolo, anziché con P.
Trascorremmo un pomeriggio divertente.
Al rientro a Ferrara comparve di nuovo quell’ossessione ricorrente. Guardavo Paolo e vedevo Paolo. P. non c’era, era come non ci fosse mai stata. C’era soltanto Paolo... Ed avevo paura.
La paura di perdere qualcosa. Qualcosa che per me era essenziale, da sempre.
“Non voglio perderti...” gli confidai, con tutto il coraggio che riuscii a trovare.
Paolo rimase sorpreso da quella richiesta inaspettata, poi mi sorrise.
“Non mi perderai, dovresti saperlo” asserì guardandomi dritto negli occhi. “Non dubitare sempre di me, non ne hai nessun motivo. Ti ho mai abbandonato? Direi di no... Ho sopportato tutte le tue crisi da donnetta isterica!”
“Che?! Donnetta isterica, io?! E tu allora quando t’ingelosivi per delle cazzate e mi tenevi il muso per giorni?! Donnetta?!”
“Calma, scherzavo, non alterarti. Io per te ci sarò sempre, quindi, per favore...”
L’abbracciai, all’improvviso. Rimase ammutolito. Era, forse, la mia ultima occasione.
Poggiai le mie labbra sulle sue. Fu un tocco lieve. Lui si ritrasse indietro. Aveva sul viso un’espressione sconvolta.
“Che ti prende? Cosa cavolo ti passa per la testa?!” chiese sbigottito Paolo.
“Scusa, pensavo... Ecco, volevo essere io il primo a... soltanto quello... prima che succedesse con qualcun altro...”
“Arrivi tardi! Dovevi pensarci prima, scemo! Io e Yuri stiamo insieme, anche se non ufficialmente, e quindi... Hai capito, no?”
“Fino a che punto...?!”
“Eh?”
“No, scusa, non mi riguarda!” mi affrettai a rimediare.
Che andavo dicendo? E comunque ormai avevo rovinato tutto. L’avevo immaginato tante di quelle volte, invece era andato tutto male. L’atmosfera se ne era andata a quel paese. A quel punto mi sarei volentieri seppellito sottoterra. Che figura vergognosa!
“Non puoi mica programmare questo genere di cose. Accadono da sé e basta.”
“Non dire altro. Non so cosa... Io credevo di...” borbottai, mentre morivo di vergogna.
“Non dirmi che era un altro gioco del cavolo per la sola curiosità di scoprire cosa si provasse a baciare un uomo?! Questa non te la perdono. Basta! Non mi vanno più queste stronzate!”
“Non era per questo, te lo giuro. Dicevi che ti piacevo e invece adesso stai con quello...! Quel giorno a Bologna sei stato tu a...!”
“Stai delirando! Tu non hai mai ricambiato ciò che provavo io per te! Tu davvero non riesci ad immaginare come sono stato io?! Per anni ho dovuto accontentarmi soltanto della tua amicizia. Non potevo sfiorarti, non volevo rischiare di perderti come migliore amico. E adesso... Tu mi stai davvero chiedendo troppo! Stavolta hai esagerato!”
“Avevo paura anch’io. Paura di quello che sentivo per te. Scusami, comunque non mi pento di averlo fatto.”
“Bene. A saperlo prima ti ci avrei infilato la lingua dentro quella bocca da cui escono solo un mucchio di stronzate! Sei un tipo assurdo! Cazzo, tu hai dei seri problemi! Trovati una ragazza, sarà meglio per te. Molto meglio che continuare a tormentarti l’anima con domande del tipo: Sarò gay anch’io? Cosa provo per Paolo, è solo un amico oppure qualcosa di più? E’ normale la mia gelosia?”
“Stronzo.”
“Non l’hai detto incazzato. Ti rendi conto di essere tu in errore, spero? Sai, brutto imbecille, anch’io avrei tanto voluto fossi tu il primo. Ma non potevo, non potevo obbligarti, farlo con la forza.”
“Com’è stare con Yuri?”
“Non saprei dirti, temo non capiresti. Praticamente tra noi c’è una fortissima attrazione fisica” rispose, senza guardarmi in faccia, “forse solo quella” aggiunse qualche secondo dopo.
Eh, no, non capivo veramente.
“Il nostro è solo uno squallido rapporto di sesso, una volgare storia di letto...” concluse, poi, ridendo nervosamente.
Non credevo alle mie orecchie. Paolo mi stava confidando delle cose che mai avrei immaginato. Aveva parlato di... sesso?!
Yuri mi era sempre sembrato una brava persona. Si mostrava sempre gentile con lui. Ma che tipo era in realtà? Dopotutto Paolo aveva solo sedici anni e una vita davanti per cambiare idea. E se un giorno si fosse innamorato di una donna? Forse non era certo che fosse gay... Era ancora troppo giovane... Forse col tempo...
“E a te va bene così? Sei sicuro di esserne innamorato? Sei davvero convinto di non provare alcun interesse per le ragazze? Non posso fare niente per... aiutarti?” gli domandai.
“So che non capirai, ma io credo di amarlo davvero... E comunque, è una mia scelta, non voglio mica essere aiutato a guarire, non è una malattia. Non sono malato, quindi non
dispiacerti, dicendo in quel modo mi offendi solamente. So che non è facile comprendermi.”
E infatti non capivo affatto. Come potevo capirlo? Comprendere una situazione del genere lo ritenevo impossibile. Ma che cavolo gli era preso a Paolo?
“Si è fatto tardi. La mamma mi aspetta al negozio, devo andare. Ci vediamo, ok?” lo salutò, dandogli una pacca sulla spalla. Afferrai al volo la sua mano mentre si riabbassava lungo i fianchi. Gliela strinsi. Volevo dire qualcosa. Dovevo dire qualcosa.
E invece... E invece... Invece, lo fissavo come pietrificato. Tutti i muscoli del mio corpo si erano completamente immobilizzati.
“Lasciami andare. Non aprire delle inutili speranze in me. Il gioco degli inganni è finito da tempo, dai” mi sorrise Paolo.
Io non mollai la presa, anzi, strinsi più forte.
Le parole, dannazione! Dovevo parlare, assolutamente!
Paolo strattonò liberandosi dalla morsa. Mi lanciò un’occhiata piena di collera mentre si allontanava da me. I suoi occhi profondi e neri mi guardarono con disprezzo.
Che fareste se il vostro migliore amico, che conoscete fin dall’età di sei anni, crescendo scoprisse di essere attratto dai ragazzi anziché dalle ragazze? Lo abbandonereste?
Io avevo sempre voluto molto bene a Paolo. Lui mi era sempre stato vicino. Per anni era stato il mio unico amico, quando tutti mi stavano alla larga perché ero troppo strano per loro.
In prima media venni investito da una macchina davanti alla scuola. Rimasto in coma per tre mesi. Da allora credo di non esser stato più completamente in me. La memoria ha iniziato a farmi brutti scherzi. Paolo non mi aveva mai lasciato solo e quando mi scoraggiavo perché non riuscivo a ricordare gli eventi passati mi era accanto dicendomi di non mollare. Ché non era importante il passato. Ciò che contava veramente era il fatto che io ero lì, con lui, e questo bastava.
Dopo la prematura morte di mio padre, Paolo era lì a farmi forza. In tutti i momenti di sconforto, nelle mie crisi interiori, lui era con me. Gli volevo bene, troppo bene, come adesso del resto. Inoltre, grazie a lui avevo potuto conoscere e frequentare P., una ragazza dolcissima, la prima persona di cui mi sono innamorato. Adesso riesco a capirlo, ad ammetterlo, a me stesso, che ne ero innamorato e che in realtà... quella persona era un ragazzo!
Lo so, i miei sentimenti sono contrastanti. Un eterno contrasto. Avevo molti dubbi a quel tempo e li ho tutt’ ora.
Volevo solo cercare di capire...
“Cerca di capirlo, è nervoso per il concerto che terremo a Roma, il prossimo mese” tentava di spiegare Fabrizio a Irene.
Yuri era intrattabile negli ultimi giorni. Se la prendeva con tutti quelli che gli stavano intorno, compreso il povero Paolo.
“Ehi, Andrea vieni con noi al Caprice?”
“Stai scherzando, vero Fab?!”
“Ma no, stasera è prevista una seratina divertente...”
Il Caffè Caprice era un locale gay dove si poteva bere, chiacchierare, ascoltare buona musica e fare piacevoli (?) incontri. Ne avevo sentito parlare molto da Paolo. Sapevo che lui e Yuri erano assidui frequentatori di quel posto. Io non ero molto propenso ad andarci, temendo di essere infastidito da persone del mio stesso sesso. Spesso avevo rifiutato la proposta di fare una capatina al Caprice dicendo che ero molto stanco per via del lavoro, quella sera invece decisi di seguirli. Come avevo immaginato non appena entrammo, sentii gran parte degli sguardi dei presenti su di me. Non mi piaceva per niente la cosa.
La seratina “divertente” a cui si riferiva Fab consisteva nello scambio di messaggi, più o meno anonimi, rivolti al cliente che più ci piaceva. All’ingresso ci era stato consegnato un numero adesivo da mettere sul petto. In questo modo se qualcuno voleva poteva scrivere una dichiarazione d’amore rivolta al possessore di un certo numero, che poi sarebbe stata letta pubblicamente dal dj.
“Per il numero 76...” annunciò lo speacker, “Ti amo ancora. Sei dovessi cambiare idea... io sarò ancora il bambino che fa la pipì seduto!”
A quelle parole morii di vergogna. Quell’idiota! Una pala per seppellirmi, presto!
“Che razza di messaggio sarebbe?!” rise Fabrizio. “Che perversione...”
“Ma quale perversione? Sei tu che hai la mente contorta e perversa...!” dichiarai.
“Come?!” si stupì lui, non aspettandosi quella mia reazione. “Ma scusa, era un po’ ambigua quella frase...” spiegò.
“Andiamocene da questo posto, non ne posso più!” dissi.
Lanciai un’occhiataccia di disapprovazione a Paolo. Lui si limitò a sorridermi, e lo fece dolcemente. Per un attimo ebbi la sensazione che fosse stata P. a sorridermi.
Fabrizio offrì una sigaretta a Paolo, vedendolo nervoso. Lui accettò.
Rimasi di stucco! Da quando aveva preso a fumare? Lo fissai con tutta la mia disapprovazione, ma lui non si curò minimamente di me.
Uscimmo dal locale che erano già le due di notte. Fuori, per strada, incontrammo Yuri che stava dirigendosi al Caprice. Lui e Paolo si scambiarono uno sguardo d’odio, almeno a me sembrò. Non si dissero niente.
Ti amo ancora... Come potevo non rimuginare sul significato di quell’affermazione di poco prima?
“Ma cosa succede?” domandai a Paolo.
“Niente.”
Il concerto di Roma segnava l’inizio di un lungo tour che li avrebbe visti impegnati fino quasi alla fine dell’anno. Stavano diventando molto popolari.
Ti amo ancora...
Il fast food avrebbe chiuso i battenti a fine maggio. Appresi con tristezza la brutta notizia, assieme agli altri dieci miei colleghi, una piovosa mattina di metà mese.
Innanzitutto dovevo mettermi al più presto alla ricerca di un nuovo lavoro. Ero dispiaciuto anche per il fatto di dovermi separare da quei ragazzi con cui mi ero trovato così bene.
La sera dell’ultimo giorno di lavoro al locale si teneva un concerto di Yuri e company a Bologna. Ero sfinito fisicamente, perchè c’era stato il pieno di clienti, e psicologicamente, tuttavia andai ugualmente a vederli suonare.
Eravamo tutti sul furgone del gruppo. Io e Paolo stavamo nel vano posteriore tra gli strumenti. Non fu un viaggio molto comodo, ma per fortuna breve.
La musica degli Y.M.I.F. riuscì a distrarmi dalla mia preoccupazione sulla ricerca di un nuovo posto di lavoro. E non era solo la musica a distrarmi... Le gambe di Irene, dannazione! Perchè non le chiudeva?! Tutte quelle urla dei fans che invocavano il suo nome come cagne in calore... Io li odiavo! Mi chiedevo che bisogno avesse di suonare in quel modo. Mi dava fastidio che tutti la guardassero tanto eccitati. Ero geloso. Sì, ero geloso. Perchè non suonava in un modo più composto? E lei che, invece, ci provava un gran gusto a vederli sbavare.
Furono due ore interminabili per me.
Paolo aveva preso a fissarmi in uno strano modo. Non diceva niente, ma sembrava in attesa di una spiegazione.
“Vado un momento al bagno, poi vi raggiungo dietro le quinte” dissi.
“Non ti ho mai visto così... Con quella faccia intendo!”
“Quale faccia?” chiesi facendo il finto tonto, ma sapevo di dover avere una faccia colpevole. Una faccia con su scritto qualcosa di incriminante agli occhi di Paolo.
“Non riesci a farmi fesso!” dichiarò. “Solo... ti sei di nuovo innamorato della persona sbagliata!”
“Ma di cosa parli?!”
“Lo sai benissimo, di Irene, te lo leggo in faccia.”
“Allora hai bisogno di un paio di occhiali, la vista ti si è offuscata!”
“No, ci vedo più che bene!” ribattè lui. “Comunque ciò prova che non sei gay, non del tutto almeno... Beh, sarai contento!”
“Come sarebbe non del tutto...?! Vuoi farmi incazzare ancora di più con questi discorsi?! Non mi sono MAI piaciuti gli uomini!”
“Non ti piacciono, però li baci...” disse sogghignando Paolo.
“Certo non andrei mai a letto con un uomo, mi ripugna il solo pensiero!”
“Ehi, ragazzi!” li chiamò la voce di Fabrizio “Non ditemi che stavate litigando?”
“Ma no...” risposi.
“Figurati, quando mai...” disse Paolo di rimando.
Paolo sapeva sempre ciò che provavo. Io negavo sempre tutto, ma inutilmente.
All’inizio di giugno avevo ripreso a lavorare. Consegnavo pizze a domicilio.
Subivo continui rimproveri da parte del mio capo.
“Nel tempo che hai impiegato a fare dieci consegne, gli altri ne hanno fatte il doppio!”
“Mi scusi” chiedevo perdono. Odiavo quel grassone quarantenne senza capelli!
‘Fanculo quel lavoro di merda! Correvo da matti col motorino per le strade di Ferrara rischiando la pelle ad ogni consegna e quello stronzo osava lamentarsi che ero troppo lento. Bucavo tutti i rossi, guidavo per strade in contromano, percorrevo le corsie preferenziali... per un misero stipendio del...!
“Via xxx, ci vai tu?”
xxx... avrei voluto cancellarla dallo stradario se fosse stato possibile.
“Ehi, ci sei?!” grugniva il Capo.
Presi le pizze e partii.
Via xxx numero 5, terzo piano.
...Vannini!
Mi tremavano le gambe mentre l’ascensore saliva. “Gliele lascio davanti alla porta e me la filo” pensai, “i soldi ce li metto io!”
Purtroppo, però, mentre mi apprestavo ad appoggiare le pizze per terra, la porta si aprì.
La Vannini mi guardò stupefatta.
“Buonasera” dissi, provando a teletrasportarmi da qualche altra parte. Qualche altra parte. Qualche altra parte. Qualsiasi altra parte sarebbe andata bene.
“Che sorpresa, Andrea. Come stai?”
Mi fece entrare in casa sua.
“E’ un mio ex allievo” spiegò al marito.
L’uomo mi strinse la mano e sorrise: “Piacere di conoscerti, sono Sergio.”
Che strano, non avevo mai pensato che la professoressa potesse essere sposata. In quel contesto non mi spaventava. Il disagio di averla rincontrata era sparito.
Mi trattenni poco, altrimenti il Capo c’era da sentirlo sbraitare per l’intera città!
Accompagnandomi alla porta mi lasciò il suo numero di telefono nel caso avessi avuto bisogno di qualcosa. Di qualsiasi cosa, ci tenne a specificare.
Mi affrettai a rientrare alla ‘base’. Feci ancora una quindicina di consegne. Ero stanco da morire quando rientrai a casa.
Nella casa di fronte alla mia, la luce nella camera di Paolo era accesa. Mi chiesi cosa stesse facendo. Rimasi ad osservare la sua finestra, fino a che qualcuno l’aprì. Paolo mi guardò incuriosito. Io me ne stavo come un idiota piantato per strada, a pochi metri da lui.
“Sei tornato adesso?”
“Sì...”
“Aspettami, scendo subito!”
Camminammo fino al vicino giardino pubblico. Sedemmo a parlare su di una panchina. Parlammo fino a tardi. Io gli confidai di voler venire via dalla pizzeria, chè mi sentivo solo sfruttato. Lui mi parlò della scuola e di Yuri. Infine, il discorso cadde sulla difficoltà che stava attraversando nel relazionarsi agli altri. La continua costrizione a fingere sia in famiglia che con gli amici.
“E’ dura sopportare in silenzio,” mi confidò, “ridere alle battute sui gay come se niente fosse... mentire in continuazione... e fingere fingere fingere...”
Non sapevo cosa rispondergli. Non avevo idea di come comportarmi. Provavo un enorme dispiacere per la sua sofferenza, ma cosa avrei potuto dire? Non prendertela? Che potevo fare per lui?
“Andrea, in che casino mi son cacciato...?”
”Paolo...”
“Guarda che bella notte stellata... credo che a P. piacerebbe molto” affermò. Aveva gli occhi un po’ lucidi e la voce gli tremava.
Alzai lo sguardo verso il cielo. Pensai a lei, non dissi niente.
“Ti ricordi le notti passate sulla spiaggia a contare le stelle cadenti?”
“Già, mi facevi una tale rabbia! Facevamo a chi ne scorgeva di più e tu mi battevi sempre!”
“Il desiderio che esprimevo era molto importante per me e credevo che più ne avessi viste più probabilità ci sarebbero state che si fosse esaudito!”
“Cos’era?”
“Non ha più tutta l’importanza di allora. Ad ogni modo quella teoria non ha funzionato... non si è mai avverata la mia richiesta!”
Ero tornato alla macchina, dopo aver rivolto un ultimo sguardo al mare. Avevo rivisto con l’immaginazione me e Paolo ragazzini su quella spiaggia. E i ricordi sembravano essere i soli a riscaldarmi in quella fredda notte.
Sarei dovuto rientrare a Ferrara. Lei mi aspettava.
Una parte di me avrebbe, invece, voluto correre dietro a Paolo: la parte egoistica di me... o quella sincera?
“Aspetterò l’alba, ormai dovrebbe mancare poco” mi dissi. E poi sarei tornato a casa.
Quinto capitolo
Avevo compiuto da poco diciassette anni quando entrai a lavorare come barman al Caffè Caprice. Era stato Yuri a trovarmi quel posto. Mi aveva presentato al suo amico Stefano, il proprietario del locale, al quale ero piaciuto subito. Così finalmente abbandonavo quella maledetta pizzeria!
Il lavoro al disco pub mi piaceva molto, l’unica pecca era che dovevo sopportare ogni sera i vari tentativi di abbordaggio da parte dei clienti. Tuttavia, nessuno si era mai comportato scorrettamente nei miei confronti. Nessuno aveva mai osato importunarmi, o aveva insistito dopo un mio rifiuto. Nessuno fino a che una sera, un tipo alquanto risoluto, mi aspettò all’uscita dal pub. La sua insistenza mi spaventava. Fortuna che Stefano, prevedendo una cosa del genere, era uscito insieme a me.
Il giovane, sulla ventina, se ne stava sull’altro lato della strada ad aspettare. Avevo paura. Possibile che per una cosa o per un’altra per me il lavoro dovesse essere sempre un rischio? Stefano mi passò un braccio attorno alla vita. Io mi strinsi a lui, poggiando la mia testa sulla sua spalla. Era una situazione davvero imbarazzante, ma non avevo altra scelta e non m’importava. Il cuore mi batteva all’impazzata quando arrivammo a passargli davanti. Il tipo ci guardò con un’espressione contrariata, lo notai con la coda dell’occhio.
“Non potrei mai perdonarmi se dovesse accaderti qualcosa all’uscita dal lavoro...” mi disse Stefano una volta lontani dal caffè.
“Grazie.”
“Ti scorto fino al motorino, non preoccuparti. Voglio assicurarmi che non ci abbia seguito!” sostenne seriamente preoccupato.
“Siamo arrivati... E’ quello là!”
Aspettò finchè non misi in moto, poi se ne andò. Avevo una fifa tremenda, come mai prima d’ora. Me la facevo sotto. Ero un ragazzino, dannazione!
Parcheggiai il ciclomotore sotto casa. Mi guardai intorno, con circospezione. Temevo che nascosto in qualche angolo buio potesse esserci quel tizio poco raccomandabile che mi aveva fatto la corte tutta la sera.
Alzai gli occhi verso la finestra della stanza di Paolo. Era spenta. Provai ancor più paura e mi affrettai ad entrare in casa. Ero salvo, ma mi tremavano ancora le gambe!
I giorni seguenti, Stefano prese ad accompagnarmi ogni notte al motorino. Purtroppo il Caprice si trovava in una zona pedonale ed ero costretto a parcheggiare a circa trecento metri dal locale. Alla fine mi decisi a ritirare fuori la mia vecchia bicicletta, per non approfittare sempre della gentilezza che mi faceva Stefano.
Smontavo dal lavoro abbastanza tardi, dopo le tre di notte, l’ora in cui chiudeva. La mattina dormivo fino a tardi. Il lavoro di barman mi piaceva molto. Al banco ero affiancato ad un altro ragazzo, Tomas, che aveva solo un paio d’anni più di me.
Non avevo detto a mia madre che tipo di locale fosse pensando che certamente non avrebbe
approvato. Poi, un giorno parlandone con Giorgio questi aveva fatto una faccia stranamente sorpresa sentendo il nome Caprice. Quindi la mamma, insospettita da quella reazione, senza dire niente, era venuta a trovarmi al caffè. Una sera me la vidi apparire davanti all’improvviso. Sbiancai e presi a sudare freddo. Ordinò un cappuccino al banco e prese a guardarsi intorno. Leggevo quella fastidiosa sensazione di disagio nei suoi occhi mentre osservava tutte quelle coppie di uomini che parlavano in un modo così intimo seduti ai tavolini. Non c’erano dubbi: aveva realizzato immediatamente che razza di locale fosse quel Caprice!
La riaccompagnò a casa Stefano. Appena rientrai anch’io mi fece la predica.
L’unica cosa che feci fu quella di spiegarle che dopotutto era un lavoro come un altro e che io mi limitavo a preparare i cocktail. E ci tenni a precisare che io non ero affatto un gay!
“Non devi vergognarti perchè tuo figlio lavora al Caprice! Per me puoi anche tenerlo nascosto, però non devi giudicarmi male perchè lavoro in un ambiente del genere. E non chiedermi di lasciare il posto, non lo farei per motivi di reputazione o cavolate del genere! Io mi trovo bene lì, Stefano è gentile con me, e lo stipendio è buono. Quindi non intrometterti, per favore...” dissi, spiegandole le mie ragioni.
Mi venne in mente che erano secoli che non discutevamo così. Erano secoli che mia madre non si comportava come tale. In fin dei conti ciò mi faceva anche piacere. Finalmente si era ricreato un dialogo tra noi.
“Cosa stai ascoltando?” mi domandò Tomas vedendomi assorto nell’ascolto del mio walkman, mentre aspettavamo di aprire il pub.
“L’ultimo album degli Y.M.I.F.”
“Allora sei un fan di Yuri... o di Irene?”
“Diciamo di entrambi... Mi piace molto la loro musica” avevo dichiarato.
“Sai, anche Ste’ è un fan di Yuri!” aveva risposto con entusiasmo Tomas. “Non è vero, Ste’?”
“Già, sono stato il suo fan numero uno. Ascolto la sua musica da quando acquistò la sua prima chitarra elettrica. L’accompagnai io alle Messaggerie Musicali, me lo ricordo come fosse ieri... E son già passati dieci anni!”
“Vi conoscete da tanto tempo, allora?” constatai.
“Fin da piccoli” precisò Stefano. Poi, andò ad aprire il caffè.
Mentre Stefano tirava sù la saracinesca del pub, Tomas mi bisbigliò: “Sono stati insieme per tre anni.”
Afferrai immediatamente quello che intendeva dire con quel stati insieme. Insieme, certo, per tre anni. Avevo, in effetti notato, che tra loro doveva esserci un rapporto molto particolare. L’avevo notato fin dal giorno in cui Yuri me l’aveva presentato.
“Senti, credo di aver capito che tu non hai alcun interesse per gli uomini... Ad ogni modo ci tengo a dirti che io sono eterosessuale, quindi non innamorarti di me!” scherzò Tomas.
“Non hai di che preoccuparti, tranquillo” lo rassicurai.
“Le sette! Tra una mezz’ora dovrebbe sorgere il sole...” pensai davanti alla riviera adriatica. Qualche bar sul lungomare stava iniziando ad aprire. “Chi sarà quel matto che va a far colazione all’alba in pieno inverno?” mi chiesi, e così dicendo scesi dall’auto e mi diressi verso uno di quegli esercizi così mattinieri.
Entrando provai un po’ di nostalgia per il mio lavoro al Caprice che avevo lasciato da circa due mesi, per dare una mano a mia zia che aveva preso la licenza di barista. Dall’inizio di novembre lavoravo nel bar di mia zia. Mi era dispiaciuto lasciare Stefano, uno dei pochi veri amici che avessi mai avuto.
Feci colazione. Cappuccino e brioches. Mi accorsi di conoscere il barista. Era un ragazzo che aveva lavorato nel ristorante dell’albergo di mio zio. Lo guardai bene: era proprio lui, ma non mi riconobbe.
Uscii e mi diressi sulla spiaggia. Sedetti in riva al mare. Ancora con i miei pensieri...
Mi addormentai di sasso, non appena m’infilai sotto le lenzuola. Ero stanco morto. Il lavoro di barman al Caprice era davvero stressante. Le avance di tutti quegli intraprendenti ammiratori erano stressanti.
Sognai Giorgio che stringeva tra le braccia mia madre: La mia mamma!
Quel gesto mi infastidiva tremendamente. Volevo gridare e non ci riuscivo. Non volevo vedere quell’atto che appariva tanto disgustoso ai miei occhi. Volevo gridare il nome di mio padre, in preda alla disperazione, ma non ci riuscivo.
“Basta! Perché devo sopportare tutto questo?!” mi lamentavo.
Al risveglio, provai una sensazione davvero sgradevole.
Mi tornava in mente molto spesso quella scena vissuta in sogno: Mia madre abbracciata con un venticinquenne!
Non riuscivo a farmene una ragione. Non avrei mai accettato la loro relazione. E i coniugi Morini come potevano prendere la situazione tanto alla leggera?! Dopotutto, il loro amato figlio usciva con una donna di quarantacinque anni! E per di più... una donna che prestava servizio in casa loro come domestica! Tutto ciò era assurdo!
Mia madre sorrideva, adesso, come non la vedevo sorridere da tanto tempo. Come potevo esprimerle la mia disapprovazione? Mi sentivo prigioniero di quell’odiosa situazione, costretto a starmene buono buono mentre dentro il sangue mi ribolliva per la rabbia.
Quasi ogni sera, rientravo a casa dal lavoro, e trovavo mia madre seduta al tavolo di cucina, in lacrime, con la testa tra le mani. Quanto avrei voluto stringerla tra le mie braccia! Invece, non riuscivo neanche a spiccicar parola. Non riuscivo neanche a pronunciare la parola “mamma”...
Se avessi avuto la possibilità di andarmene da quella casa l’avrei fatto, ma col mio solo stipendio era totalmente impensabile credere di poter pagare le spese dell’affitto di un appartamento. Così resistevo, facendo finta di non vedere ciò che vedevo.
“Vai già al lavoro? Non è un po’ presto?” chiese la voce di mia madre, dal bagno. Doveva aver sentito aprire il chiavistello della porta d’ingresso.
“Passo dalla sala prove, devo portare alcune cose a Yuri. Ciao, a dopo!”
Molto spesso neanche la salutavo uscendo di casa.
Avevo incontrato Irene, la mattina, che mi aveva pregato di portare alcuni fogli a Yuri, allo studio di registrazione. Lei era impegnata fino a tardi con le ripetizioni di latino e il lavoro di baby sitter. Le facevo il favore, tanto ero di strada per recarmi al Caprice.
Irene mi aveva dato le chiavi dello studio, quindi entrai tranquillamente senza suonare... Maledetto me!
Tutto taceva, immerso nel silenzio, ed io, scemo, non chiamai il nome di Yuri né chiesi se c’era nessuno. Aprii la porta dell’ufficio, ignaro di ciò che mi aspettava al di là della soglia. Fu per un attimo, ma fu per troppo. Yuri e Paolo, insieme, per terra. Richiusi la porta immediatamente e alla velocità di una frazione di secondo. Troppo veloce per aver visto i dettagli di quella scena dall’inequivocabile atmosfera hard Però, li avevo sorpresi nella loro intimità: i loro corpi erano avvinghiati, senza alcun dubbio.
“Cazzo, che schifo!” pensai, portandomi una mano alla bocca.
Sentivo lo stomaco sottosopra a causa di quella visione così poco ortodossa di... petting omosessuale? D’ altraparte la colpa era stata mia. Ero entrato così furtivo.
Sentii lo stomaco che si contraeva con spasmi incontrollabili .Corsi in bagno, a vomitare nel cesso. Il water mi appariva come la mia unica salvezza. Continuavo a vomitare abbracciandolo e ripetendo a me stesso: “Dio Mio, che schifo!”
Uno spettacolo a dir poco ripugnante, sebbene sapessi che loro stavano insieme e logicamente facevano anche quello, ma mai avrei immaginato di assistere in prima persona ad una cosa talmente disgustosa. Avrei infilato volentieri la testa dentro al cesso per quanto ero rimasto inorridito, e per l’imbarazzo provato. A quel sentimento di orrore se ne andava lentamente aggiungendo un altro. Uno strano e confuso sentimento di... rabbia? Un’uggiolina fastidiosa che si insidiava in un punto sconosciuto del cuore e che pungeva. Pungeva dannatamente...
di gelosia?
Avvertii dei passi che giungevano verso il bagno. Vista l’urgenza in cui mi ero trovato non avevo fatto in tempo a chiudermi dentro. La porta era aperta, ma Yuri bussò comunque sulla porta chiedendo il permesso di entrare.
“Stai male?” chiese preoccupato, chinandosi verso di me.
“Vattene via, per favore!” lo respinsi, ma lui mi poggiò una mano sulla spalla. Allora, scacciai via la sua mano. Mi infastidiva la sua premura.
“Andrea...”
“Vattene, mi fai schifo! Tutti e due mi fate schifo!” urlavo, come un ossesso, senza guardarlo in faccia. Non volevo vedere quello schifoso pervertito che fino a tre minuti fa era di là a dar sfogo ai suoi più bassi istinti con Paolo.
Schifo! Schifo! Schifo! Non riuscivo a pensare a nient’altro.
“Guarda che sei stato tu ad introdurti nell’edificio come un ladro. Potevi suonare, no? Avresti evitato di andare incontro a così, per te, tanto spiacevoli sorprese!” replicò, seccato, Yuri.
Aveva ragione lui: Che errore imperdonabile avevo commesso!
Avrei mai potuto dimenticare una visione del genere? Tutta quella perversione, di cui finora ero a conoscenza, ma solo in teoria? Pensai sarebbe stato molto difficile rimuoverla.
Ero certo di trovarmi su di un altro pianeta rispetto a loro. Non condividevo affatto i loro
gusti sessuali, non li capivo, ma chissà perché ogni tanto ero sfiorato da atroci dubbi in proposito. E anche in quel momento, non potevo far altro che ammettere che se da una parte ero schifato dall’altra... ero geloso! Non saprei dire bene neanche adesso su cosa si basava esattamente la mia gelosia...
Sentivo che la nostra amicizia si era di nuovo incrinata, e stavolta immaginavo per sempre.
Vedere Paolo far sesso con Yuri era stato sconvolgente. Avevo compreso di averlo perso definitivamente, ma le cose andavano bene così. Tutto seguiva il suo corso. Io avevo sempre rifiutato l’amore di Paolo, quindi era normale che lui...
Insomma, tu rifiuti una cosa e qualcun altro se la prende al tuo posto!
“E’ normale che accada questo. Normale. Perfettamente normale! Non devo prendermela per questo!” me lo ripetevo, ma facevo un’enorme fatica a crederlo veramente. Ecco un’altra cosa che non volevo, egoisticamente, accettare.
Vendetta. Da giorni meditavo a lungo su due questioni che mi davano entrambe il voltastomaco. Odiavo con tutto me stesso Paolo e Irene. Paolo era stata una bambola con la delicata faccia di porcellana, preziosa, da tenere in vetrina e adesso non era che una brutta marionetta, col ventre squarciato, gettata nell’immondizia. In quel momento la vedevo così. Quanto ad Irene, la donna fatale, dietro a cui tutti morivano, godeva nel trattare quelle bestie sbavanti con tanta indifferenza. Godeva nel provocarli da sopra il palco, quale più oscuro sentimento di perfidia albergava in lei!
Era la serata di chiusura del tour estivo, al Noise.
“Ciao, finocchietto!” mi aveva salutato, con mezzo sorriso, a fine concerto.
Voleva essere spiritosa, forse? Che voglia di prenderla a schiaffi! Il folle desiderio di vendetta si faceva sempre più strada nella mia testa, dove il tasso alcolico aveva già superato il livello di guardia. Tra me e lei era ancora guerra aperta. E quella sera avrei vinto io, o almeno avrei pareggiato i conti, una volta per tutte. Le avrei dimostrato che non ero affatto un frocio!
“Andrea, mi gira la testa...” mi disse gettandomi le braccia al collo. Era talmente fatta d’alcol e cocaina che non avrebbe certo potuto ribellarsi alla mia violenza. Ero deciso. Stavo perdendo il controllo di me. Stavo perdendo il controllo...
La trascinai nel bagno delle donne. Aprii la porta di uno dei due cessi e la scaraventai dentro.
Non reggendosi molto bene in piedi andò a sbattere la testa contro la parete. Poi, è scivolata a terra. Le rivolsi uno sguardo di disprezzo.
“Ma cosa fai?” riuscì a dire, mentre con la mano si toccava la ferita alla fronte. Sanguinava un po’, ma niente di grave. Io la odiavo, dal profondo.
“Sta’ zitta!” la intimai. “Adesso scopiamo, così la smetterai di accusarmi d’esser frocio! Non ne posso più!” dichiarai, slacciandomi i pantaloni.
Irene non disse più niente. Di nuovo la guardai con disprezzo. Lei abbassò gli occhi.
Non ero in me.
Io non ero in me.
Non ero in me!
Il suo corpo mi eccitava da matti. E mi eccitava pensare che quella era la donna che tutti
avrebbero voluto portarsi a letto. E mi eccitava immaginare la faccia che avrebbero fatto Paolo e Yuri se avessero potuto vedermi. Mi eccitava quella sorta di vendetta. Era la mia rivincita. Il mio riscatto.
La feci mia con tutta la violenza e la rabbia che mi portavo dentro. Ho goduto, poi... Non so, il mio sguardo è caduto sulla sua minigonna di raso nera. Per un attimo la figura di Irene si è sostituita con l’esile figura di P.
Stavo venendo catturato dentro ad un delirio sempre più folle. Un delirio senza scampo.
“Irene...!” dovetti chiamare, per destarmi da quella sconvolgente visione.
“Questo non è mica amore...!” si lamentò lei. E le sue parole mi scossero un po’. Mi resi conto di ciò che avevo fatto. Dio, come avevo potuto abusare di lei?
“Questo non è mica amore...!”
Quello, però, era l’unico amore che conoscevo. Un sentimento fatto di violenza, d’egoismo. Avevamo fatto sesso. Solo sesso. Sesso sporco. Mi sentivo da schifo.
Dopo aver fatto il mio porco comodo tentai di aprire la porta, ma Irene mi afferrò debolmente per la maglietta. Era ancora per terra, mezzanuda. La fissai per qualche istante. Ricordai il sopruso subìto dalla Vannini. Anche se ero consenziente, in realtà ero ancora piccolo per poter capire i danni morali che mi infliggeva. Quella della Vannini era stata violenza bella e buona. Violenza psicologica, che adesso partoriva tragiche conseguenze.
Non è amore...
“Cosa vorresti fare, splalancare la porta per dimostrare a tutti di essere un uomo?!” mi chiese, con un filo di voce.
Nel sentire le sue parole, mi ripresi un po’ da quella cieca follia che si era impossessata di me. Le rivolsi uno sguardo compassionevole.
Che diavolo ho fatto? Che ho fatto? Che ho fatto?
Appoggiai la mano sulla maniglia. Ero stato sfiorato veramente dall’idea di spalancare quella maledettissima porta affinchè tutti potessero rendersi conto che non ero un frocio.
Sono pazzo! Dio, voglio morire! Adesso!
Mi abbassai verso Irene chiedendole come stava...
Ma che figlio di puttana! Non avevo niente di meglio da dire?
Lei mi guardò con quegli occhi azzurri, che si erano fatti piccoli piccoli, senza rispondere. L’abbracciai forte e la baciai, temevo rifiutasse le mie labbra invece...
“Perchè non l’hai fatto anche prima? Ma chi ti ha insegnato a... Mi terrorizzavi, avevi uno sguardo che non ti avevo mai visto prima!”
Non volevo ascoltarla e così la baciai di nuovo. Un bacio vero stavolta. Il mio primo bacio vero. Non sapevo come si facesse l’amore- non sapevo cosa fosse l’Amore- conoscevo soltanto il sesso. Ed ero capace soltanto di offrire violenza poichè solo quella avevo ricevuto. Non sapevo proprio niente riguardo l’amare qualcuno. Come si amava una donna...?
Mi sentivo triste. Mi odiavo. Avevo commesso uno dei peggiori crimini che un uomo può commettere nella sua vita! Volevo morire!
Dopo essere uscito dall’auditorium ho vagato per le vie di Ferrara senza sapere dove stessi andando. Che avrei fatto d’ora in poi? Non sarebbe bastato chiedere scusa... Mi sentivo un mostro. E volevo morire!
Ero solo come mai ricordavo di esser stato. Non potevo chiamare P., nè Paolo, nè Yuri, nè Fabrizio, nè Stefano, ... e non me la sentivo neanche di tornare a casa da mia madre!
I giorni che seguirono evitai accuratamente di farmi vivo. In quanto ad affrontare Irene non se ne parlava proprio.
Passarono due settimane e fu Irene a presentarsi a casa mia. Mi salutò sorridendo, come se non fosse accaduto niente, invece era accaduto l’irriparabile tra noi. C’era anche mia madre, così uscii per parlarle in privato.
Il solito giardino pubblico che spesso aveva fatto da scenario per i litigi tra me e Paolo adesso mi vedeva discutere con Irene. Lei non era arrabbiata, voleva soltanto una spiegazione.
“Non l’avrai fatto sul serio per dimostrare che non sei gay?! Non sarai così stupido... Perchè gli uomini usano sempre la violenza quando hanno paura di non saper tener testa ad una donna?!
“Cosa vuoi saperne della psicologia maschile?” avevo replicato.
“Vorrai dire della stupidità maschile...” aveva precisato lei. “Non ne so molto, io... so soltanto che sei un grandissimo stronzo!” mi accusò duramente.
“Sì, hai ragione. Potrai perdonarmi? Non so cosa dire... Eravamo entrambi ubriachi e... “
“Non penso basterà quella parolina di cinque lettere... Andrea, tu mi hai stuprata!”
Quell’ultima parola risuonò spaventosamente nella mia testa.
“Ecco che te ne rimani lì, muto come un idiota...” disapprovò lei. “Sei come un bambino che ha combinato qualche pasticcio e teme i rimproveri... Sai che potrei denunciarti?”
Abbassai lo sguardo.
“Non preoccuparti, non lo farò, e non lo dirò a nessuno. Anch’io ero ubriaca... E poi, non so... tu... Perchè mi hai baciata alla fine? Prima abusi del mio corpo con tanta violenza e poi... un gesto d’amore?”
Non sapevo cosa dirle. Non sapevo come comportarmi. Mi facevo solamente schifo.
“Stuprata da un minorenne, questa sì che è buffa!” rise Irene.
“Ascolta, io...” presi a dire, ma lei m’ interruppe.
“Non sapevi assolutamente quello che facevi, vero? Mi detestavi e ti sei voluto sfogare, be’ hai fatto bene... Vedi, lo so che sono proprio una stronza, e lo ammetto. Non ti odio per quello che mi hai fatto. Credo che noi due siamo davvero molto simili. Siamo entrambi soli e...”
Perchè non riuscivo ad esternare i miei sentimenti neanche con lei? Non ci sarebbe stato niente di male, e soprattutto niente di sbagliato.
Tre anni fa, sulla spiaggia di Rimini, ho sperato di poter rivedere una persona. Dall’ultima volta che passammo il pomeriggio insieme avevo pensato spesso a lei. Mi mancava la ragazza che anni prima aveva fatto ingelosire Paolo: Marina.
Avevo ricevuto una sua lettera in cui scriveva che per il week-end dell’ultima settimana di marzo sarebbe venuta a Ferrara. Suo padre doveva venirci per motivi di lavoro e lei gli aveva
chiesto di poterlo accompagnare per rivedere i vecchi amici.
Non stavo più nella pelle. Erano passati più di quattro anni da quando si era trasferita a Torino. Per tutto questo tempo però avevamo mantenuto un’assidua corrispondenza epistolare.
Avevo raggiunto ormai la maggiore età e stavo studiando per prendere la patente di guida. A darmi lezioni di pratica ci si era messo anche Yuri, che aveva la patente da dieci anni, e che spesso mi faceva guidare la sua macchina. Nonostante passassimo molto tempo insieme non ero ancora riuscito a confidargli di me e Irene. Mi chiedevo se mi sarei mai liberato dal peso di quella brutta faccenda. Solo Dio sa quanto avrei desiderato parlargliene, ma ogni volta mi si bloccavano le parole nella gola e non uscivano fuori.
Il sabato mattina in cui avevo appuntamento con Marina davanti all’hotel in cui alloggiava con suo padre, fu Yuri ad accompagnarmi in auto.
Marina non era cambiata molto dai tempi delle medie. Era ancora bellissima come la ricordavo. Passammo l’intero pomeriggio a gironzolare per le vie del centro. Era una ragazza molto diversa da Irene. Lei era gentile, come solo P. lo era stata con me. Il solo starle vicino mi rendeva di buonumore.
Quando mi aveva avvisata sarebbe venuta a Ferrara, mi ero dato da fare per organizzare una rimpatriata di vecchi compagni di classe. Avevo ancora i numeri telefonici di tutti, e Paolo mi aveva dato una mano a fare un giro di chiamate. Cenammo in una pizzeria vicino al suo albergo.
Durante la cena, furono in molti a scherzare sul nostro conto. Credevano stessimo insieme, be’ magari se lei non avesse abitato a Torino chissà...
Ultimamente mi interessavo alle ragazze, e lo ritenevo un notevole miglioramento. Comunque rimaneva il fatto che la mia vita era piena di uomini! Al Caprice poi, tutti mi facevano il filo, nonostante girasse voce che ero il ragazzo del capo. Stefano ne approfittava, ma non con cattive intenzioni, per abbracciarmi o baciarmi sulla fronte. E soprattutto quest’ultima cosa mi faceva sentire un perfetto idiota.
“Certo che formate proprio una bella coppia tu e Marina!”
E Paolo? Cosa ne pensava Paolo di quei discorsi? Cercai d’incrociare il suo sguardo, ma era troppo occupato a parlare con Fabrizio. Avevamo invitato anche lui alla cena.
Ero certo che a Paolo ormai non fregasse più niente di tutte quelle sciocchezze da ragazzini. E poi, cosa mai gli sarebbe dovuto importare di me? Lui aveva Yuri, era il suo ragazzo. Se io e Marina ci fossimo messi insieme non la cosa non l’avrebbe minimamente toccato...
Al termine della serata riaccompagnai Marina dal padre. Ci salutammo davanti all’hotel, dall’altro lato della strada. Ci baciammo. Mi fu difficile lasciarle le mani che tenevo strette nelle mie. La guardai attraversare quando un’auto sopraggiunse verso di lei ad una velocità piuttosto elevata.
“Attenta!” le gridai, ma l’auto l’aveva già investita in pieno. Il suo corpo per l’urto era stato sbalzato via, facendole fare un volo di qusi cento metri. Una donna che aveva assistito anch’essa alla scena gridò terrorizzata. La gente si riversava in strada accalcandosi attorno al corpo inerme di Marina. Io mossi qualche passo in avanti, non ce la feci a raggiungerla. I soccorsi arrivarono presto, fortunatamente, tuttavia non riprendeva conoscenza. Salii con suo
padre a bordo dell’ambulanza. Seduti in quella piccola sala d’attesa il tempo sembrava essersi fermato. Non avevo il coraggio di dire una sola parola a quell’uomo che mi sedeva accanto fissando il pavimento. Più tardi andai a telefonare a Paolo. Mi raggiunse in ospedale incredulo. Solo un’ora prima eravamo tutti insieme a scherzare in pizzeria e adesso
Adesso..., no, non potevo crederlo neanche io!
“Andrea...”
Eravamo scesi giù nell’atrio.
“Hai una sigaretta?”
Paolo si era sorpreso lì per lì, ma poi aveva compreso.
“Tieni, mi è rimasta l’ultima.”
“Sai, ho rivisto me prima... l’incidente di cinque anni fa...lo stridore di una frenata... quella macchina che mi viene addosso...Poi, più niente, il buio assoluto! Ce la farà, vero? Marina, si salverà...? Ce l’ho fatta io! Se è sopravvissuto uno stupido come me figuriamoci lei, così bella e...!”
“Ti sei messo con lei veramente?”
Non mi aspettavo una domanda simile, e poi non in quella circostanza. Il volto di Paolo appariva stranamente turbato.
“Ci stavamo pensando. Ci siamo baciati al momento di salutarci... Lei mi piace molto, a dir la verità. So che la distanza tra Ferrara e Torino è notevole, però...”
Paolo, non pronunciò parola, solo mi si gettò tra le braccia.
“Ehi, siamo in ospedale...! Contieniti!” Mi guardai attorno, preoccupato.
“Come fai a non capire, brutto stronzo!”
“Smettila di dire cose senza senso. Dai, dobbiamo risalire, magari ci faranno sapere qualcosa...!”
“Ma che diavolo vuoi che ti dicano? Rimani qui, salgo io. Non voglio che tu stia ancora più male, intesi?”
“Dici un mucchio di stronzate, lasciami andare!” mi opponevo, tentando di liberarmi dalla sua stretta.
“No, non ti mollo!”
“Mi hai proprio rotto adesso! Fammi andare da Marina!”
“Quello che ti ho detto quella sera al Caprice era vero... che ti amo ancora... e vorrei che anche tu fossi sincero con te stesso!”
“Io lo sono, lasciami andare! Dai, che c’è gente, finiscila di fare il cretino!”
“Ma davvero pensi che io abbia dimenticato?! Idiota, ho avuto paura di perderti quella volta! Perdonami, credevo non ti saresti mai svegliato e... Dio, scusami l’unica cosa che mi veniva in mente era che te ne andavi senza lasciare testamento e non avrei potuto avere le tue cose... i tuoi libri, i tuoi dischi...! Ora mi odi, eh? Veramente, sono stupido, e non avevo mai avuto il coraggio di dirtelo. Non sono forte come credi, lo faccio credere a te, ma pensavo saresti morto. Questa è la verità e ora io...”
“Non m’importa, avevi tredici anni. E’ comprensibile facessi simili pensieri, certo non ti odierò per questo!”
Insistevo nel liberarmi dalle braccia di Paolo, quando il padre di Marina comparve davanti a
me, alle spalle di Paolo. Aveva lo sguardo assente e scuoteva la testa.
Un brivido percorse tutto il mio corpo. Non volevo crederci, ma sapevo cosa succedeva.
Le parole di Irene mi balenarono in testa: “Hai mai desiderato morire?”
Sì, in quel momento lo desideravo davvero. Meglio fosse successo a me cinque anni fa che non a...!
Non é vero! Non è vero!
Cazzo, no, non poteva esser vero!
Ma perchè non diceva niente?
Quell’uomo mi fissava con quello sguardo spettrale e non diceva niente!
Il doloroso ricordo della morte di Marina era ogni volta una pugnalata in pieno petto. E adesso quel mare maledettamente blu, chissà perchè, mi aveva fatto pensare a lei, a quanto mi mancasse.
Strinsi i denti e battei il pugno sulla fredda sabbia. Lanciai un’occhiata di disprezzo a quel mare crudelmente blu.
Sperai di vedermela comparire davanti, avvolta dalle onde come una Venere.
L’unica ragazza che mai avessi davvero amato se n’era andata senza che io avessi avuto il tempo di dirle che avrei voluto stare con lei, magari per sempre. L’unica ragazza, naturalmente se non si prende in considerazione P.!
“Stai ancora scrivendo?” mi chiese Irene, sedendomisi accanto sul divanetto nell’atrio della sala prove. “Sarei curiosa di leggerlo, poi, il tuo racconto... sono due settimane che te ne stai chino su quel bloc notes! Ma non faresti prima ad usare il computer?”
“Figurati, i veri artisti scrivono di getto su tutto ciò che gli capita” sostenne sorridendo Yuri, che li aveva raggiunti.
“Non c’è niente di meglio che la buona vecchia carta!” risposi, senza alzare lo sguardo dal mio tacquino. “E comunque non posso certo definirmi un artista... Lo faccio solo perchè mi piace farlo, per un puro piacere tutto personale!” dichiarai.
Irene si alzò dal sofà, lasciando il posto a Yuri. Lui prese ad osservarmi, incuriosito da quel mio attacco di follia . Scrivevo senza sosta come un ossesso. Rimase accanto a me fino a quando Fabrizio non lo chiamò nell’altra stanza.
Irene tornò a sedersi vicino a me.
“Non era la prima volta, vero?”
Ero concentratissimo su quanto stavo scrivendo, ma a quell’ asserzione arrestai il fluido d’inchiostro.
“Con quante ragazze...”
“Una, soltanto una... e non mi va di parlarne!” cercai di tagliar corto.
“E’ stato così brutto?”
“Non è quello... Il fatto è che io non ne avevo molta voglia, fu lei a insistere.”
“Non ti è piaciuto perchè lei ti ha costretto? Bella questa! ...E tu hai fatto la stessa cosa con me! Lei ti ha preso con la forza?”
“Diciamo che si è trattato più che altro di un ricatto morale...”
“Violenza psicologica... E questo dovrebbe spiegare perchè ti sei comportato in quel modo con me? Dovrebbe giustificarti?”
“Ma no, stai facendo tutto da sola!”
“Lei chi era?”
“Una persona che detesto.”
“Proprio come me...” constatò Irene.
“Ma no” negai io. Infatti, iniziavo a rendermi conto che non la detestavo più come una volta.
Non che adesso l’amassi, certo, ma neanche l’odiavo.
Yuri fece di nuovo la sua comparsa nell’atrio.
Irene scattò sù, in piedi, e si accese una sigaretta. Sembrava nervosa. Prese a passeggiare avanti e indietro.
“Tutto bene, Andrea?” mi chiese Yu.
Quella bocca, dalle labbra così sottili, mi parve tanto sensuale. Non riuscivo a non rimanerne affascinato! Si accese una sigaretta anche lui.
Per un attimo immaginai di trovarmi nei panni di Paolo. Lo invidiavo. Yuri era davvero un bel ragazzo e io, per quanto l’avessi sempre negato a priori, ne ero sempre stato attratto.
“Sai, un po’ mi dispiace che le cose fra noi non siano andate come speravo. Se solo fossero andate in un certo modo...” prese a dire, come parlando tra sè. Aspirava con gusto il tabacco da quella marlboro rossa. Avrei voluto essere quella sigaretta. Invidiavo quella sigaretta del cavolo!
“Lo vuoi un caffè?”
“S-sì...” balbettai, riprendendomi da quei pensieri. Il caffè della macchinetta a gettoni non era il massimo, ma se era Yuri ad offrirmelo era mille volte meglio di un espresso del bar.
Quando mi porse il bicchierino di carta lo ringraziai sorridendo. Mi piaceva Yuri, nonostante fosse il ragazzo di Paolo e nonostante li avessi visti fare sesso. E nonostante io non ritenessi assolutamente di essere gay...!
Tornai verso la macchina. Ormai si era fatto giorno, già da un paio d’ore. C’era il tempo per un ultimo ricordo prima d’imboccare di nuovo l’autostrada per Ferrara.
Un ultimo ricordo, il più desolante: Mia madre che cancella per sempre mio padre!
E io vorrei tanto riuscire a cancellare quel giorno x di luglio dell’anno x in cui mia madre si è unita in matrimonio con il figlio dei Pedrini. Quel giorno x in cui solo Paolo sembrava conoscere così bene, come del resto era sempre stato, il mio stato d’animo. Quel giorno in cui ho arretrato di qualche passo nella mia vita e ho chiesto perdono a mio padre per la scelta egoistica di mia mamma. Quel giorno in cui per l’ennesima volta ho pensato che sarebbe stato decisamente meglio non mi fossi risvegliato dal coma, se sarei dovuto esser testimone di tutto questo...
Ultimo capitolo
Bologna, 23 marzo 2004. Fuori dalla finestra c’è una notte stellata esattamente come quella notte di tre anni fa: La notte in cui rividi Paolo prima che si trasferisse a Bologna con Yuri. La notte che dopo aver guidato fino a Bologna, avevo proseguito fino a Rimini. La notte in cui avevo rivissuto con la mente un viaggio attraverso i momenti più importanti della mia adolescenza trascorsa con Paolo.
Avevo scelto Rimini perché ne avevo un caro e nostalgico ricordo di vacanze estive trascorse nell’hotel di mio zio. Spesso anche Paolo era stato nostro ospite.
Vivo anch’io a Bologna adesso. Condivido un appartamento con due studenti universitari: abbiamo camere separate e bagno e cucina in comune.
Lavoro in un bar fino a notte tarda. La mattina dormo fino a mezzogiorno passato. Il pomeriggio sto a cazzeggiare facendo su e giù per Via Indipendenza, come un idiota, fino a che alle sette non attacco a lavorare. Abito in questa città già da due anni, nonostante questo non mi sono più fatto vivo nè con Paolo nè con Yuri. Loro certo mi credono ancora a Ferrara. Vorrei rivedere almeno Paolo. Spesso sono tentato di chiamarlo per incontrarci, ma poi non lo faccio. Lui, del resto, anche se volesse cercarmi non mi troverebbe: Ho cambiato numero di cellulare, e mia madre dopo che si è risposata è andata a vivere con Giorgio. Non credo abbia modo di rintracciarmi.
Ho scritto un racconto: “Notti”. L’ho scritto tutto completamente al computer, anche se dicevo sempre di preferire scrivere a mano con la cara vecchia bic. Appena comprerò una stampante, ne farò una copia cartacea e cancellerò il file in memoria. Poi, scenderò giù in strada. Farò la cosa più giusta, ne sono convinto: C’è un invitante cassonetto giallo per la raccolta di carta e cartone che attende il mio manoscritto. Almeno salverà la vita di un albero!
Il suono del campanello interrompe il mio delirio.
E’ Giacomo, uno dei ragazzi che vive con me. Mi crolla addosso, sfinito. Lo aiuto ad entrare in casa. Ha il volto completamente pesto.
“Ho fatto a pugni” dice, tentando di sorridere con quel labbro spaccato, “le ho prese” si sforza di sorridere.
“Ma cos’è successo?” gli domando, mentre vado a prendere del disinfettante e un panno pulito.
“Un tizio stava importunando la mia ragazza, quel bastardo!”
“Non sapevo avessi una ragazza.”
“Viviamo sotto lo stesso tetto e non sappiamo quasi niente di noi, non ti sembra assurdo? D’altronde tu rincasi a notte fonda, per questo non abbiamo mai avuto molte occasioni per parlare...”
“Sì, deve essere così” rispondo io, in tono vago. “Ci tieni molto a questa ragazza, ridurti così... Io non so se l’avrei difesa come hai fatto tu...”
“Ce l’hai la ragazza?”
Gli ho fatto cenno di no con la testa.
“Come mai? Sei molto carino, non dovresti aver problemi con le donne” sostiene lui.
“Sono finocchio” dichiaro serio, ma mento, e Giacomo lo capisce immediatamente.
“Non farmi ridere, accidenti a te, le ferite mi fanno ancora più male. La pelle mi tira da matti, mi sembra di morire!”
“Sai, conoscevo una ragazza che avrebbe sicuramente fatto a botte per difendermi!” ho detto ridendo.
“Per difendere te? Lei? Caspita, doveva essere un bel tipo! E dov’è adesso?”
“A Bologna.”
“A Bologna?” mi domanda sorpreso. “Quindi la vedi tutt’ora...”
“Non ci vediamo da cinque anni, da quando lei è venuta a vivere qui col suo fidanzato. Non me la sento proprio di telefonarle...”
“Ne parli come se ne avessi nostalgia, non l’hai dimenticata vero? Com’è che è finita tra di voi? Se non sono troppo indiscreto...”
“Sono stato io, perchè non avrebbe mai potuto funzionare...”gli dico, disinfettandogli le ferite sul volto. Mi ricorda Paolo, non so bene perchè, forse per il suo carattere irruento.
“Brucia! Cazzo, cerca d’esser più delicato!” mi ha urlato Giacomo per il dolore della medicazione.
“Ci proverò...”
“E tu perchè sei venuto a vivere a Bologna?”
“Ferrara aveva iniziato già da molto tempo ad andarmi stretta. Avevo semplicemente voglia di cambiare aria.”
“Lo dici come uno che è scappato da qualcosa.”
“Da molte cose, per la verità...” ho ammesso, abbassando gli occhi.
“Stavi scrivendo prima che arrivassi io? Che cosa?”
“Un racconto.”
“L’altro giorno ha chiamato una certa Irene che ti cercava, scusa mi era passato di mente...”
“Irene...? Davvero?!”
“Sei scappato anche da lei?”
“No, piuttosto il contrario. Vivevamo insieme, l’ho aiutata per più di un anno. L’ho ospitata a casa mia, e poi un bel giorno... Mah, donne!”
I ricordi di quel periodo riaffiorano alla mia mente...
Gli Y.M.I.F. avevano da poco firmato un contratto con una nuova casa discografica. Il loro nuovo album aveva riscosso un successo notevole, vendendo ben diecimila copie in solo una settimana dalla sua uscita nei negozi.
I ragazzi erano impegnati in un tour nazionale che li vedeva spesso lontani da Ferrara.
Irene sembrava preoccupata per qualcosa, ma evitava in tutti i modi di parlarne con me. Si stava allontanando, non non riuscivo ad impedirlo. Un giorno finimmo per litigare di brutto e quasi arrivammo alle mani. Fu il provvidenziale arrivo di Fabrizio a fermarci.
Io avevo lasciato il lavoro al Caprice e adesso lavoravo nel bar che mia zia Alina, sorella di mia madre, aveva preso in gestione. Io ero abbastanza entusiasta del cambiamento e poi con lei ero sempre andato d’accordo, più che con mia madre.
Mia madre...
Non la vedevo dal giorno che si era risposata ed era andata a vivere con Giorgio. Io ero rimasto nel vecchio appartamento. Erano lì tutti i miei ricordi più cari dell’infanzia trascorsa con mio padre. Mi ero ostinato a non voler lasciare quella casa. La mamma dapprima contrariata, aveva infine ceduto. Mi ero perfino offerto di pagarle l’affitto mensilmente. Non avrei permesso che vendesse la casa che papà aveva ricevuto in eredità dai suoi genitori. La casa che una volta era stata dei miei nonni. La casa che aveva visto la mia famiglia felice per tredici anni. La nostra casa!
“Esci con Irene, non è così?”
“E se anche fosse?”
“Non ti sei accorto di niente ultimamente? Non vedi che è strana...”
“Non mi sembra proprio.”
“Possibile tu non riesca mai a vedere al di là di te stesso!” mi rimproverava duramente Paolo. Cosa c’era che non andava in Irene? Sì, che mi ero accorto che si comportava diversamente dal solito.
Erano passati già due anni dalla sera in cui avevo trascinato Irene nel bagno e
E avevo fatto quello che avevo fatto.
“Ma a cosa pensi? Ti stai estraniando di nuovo...!” mi rimproverò Paolo.
Eravamo seduti al tavolo di un pub, davanti a due birre scure. Ritenni che quello era il momento giusto per confidargli un paio di cose che gli avevo tenuto nascosto troppo a lungo.
“Ti ricordi quando facevamo il gioco dei segreti? Usavi sempre quel mezzo per sapere i fatti miei...”
“Non vorrai chiedermi qualcosa di personale che riguarda Yuri, spero!” si allarmò lui.
“Figurati, non ci tengo certo a sapere le porcherie che combini con quello!” m’irritai io. “Voglio giocare, se non ti dispiace, e vorrei che iniziassi tu ad interrogare me” dichiarai.
Paolo sembrava veramente sorpreso da quella mia richiesta.
“Non parliamo più come una volta, non ci confidiamo più tra noi... Io sento il bisogno di rivelarti delle cose che non mi permettono di vivere in pace con me stesso” ammisi, scrutando dentro i suoi occhi curioso di vedere la sua reazione.
“Abbiamo quasi vent’anni... Che problema c’è a parlare tranquillamente tra di noi? Dai, coraggio, ti ascolto.”
“Ti ricordi la Vannini?”
“La Vannini...?!”
Il tono della sua voce sembrava preoccupato. Sicuramente Paolo aveva intuito che l’argomento si faceva serio. Non era più solo uno stupido gioco.
“La mia ammissione in terza... Ecco, vedi, io... Insomma... Lei mi disse mi avrebbe aiutato se io...”
“Ma che diavolo stai dicendo...?” si alterava il ragazzo. “Che cazzo vuoi dire?!”
“Abbassa la voce, ti prego.”
“L’ammissione... ma di cosa cazzo parli?!”
Bevvi la birra che mi rimaneva ed uscimmo. La mia macchina non era lontana. La raggiungemmo. Una volta all’interno della vettura riprendemmo a parlare. Parlare...?
“Dovevo dirtelo, mi portavo dentro questa cosa da troppi anni!” mugolai, battendo per due volte il pugno sul petto di Paolo. Mi comportavo da perfetto stupido.
“Hai scopato con la Vannini! Cazzo, non riesco a crederci! E lei... che persona schifosa! Non so cosa mi trattenga da prenderti a schiaffi, tu che tanto disprezzavi me e Yuri... con quale diritto?! Tu, tu che ti sei venduto ad una professoressa per essere ammesso in terza media! Dimmi, chi è la persona più schifosa tra noi? Eh, chi è la persona da disprezzare?! Cazzo, dimmelo! Che ipocrita che sei...”
“Non avevo scelta, non ce l’avrei mai fatta ad esser promosso. Se venivo bocciato mi sarei anche dovuto separare da te!”
“Tu non l’hai fatto per questo, ma per te stesso. L’hai fatto per non sentirti inferiore agli altri, ecco tutto. Io non c’entro...”
“Mi dispiace non avertelo detto prima.”
“Quella stronza della Vannini, con un ragazzino! Che razza di schifosa!”
Appoggiai una mano sulla sua gamba. Non mi avrebbe perdonato, immaginavo. E ancora non gli avevo detto quello che era successo con Irene quella sera al Dome.
“Adesso te lo dico io un segreto!” annunciò Paolo. “Ogni notte ti sogno, capisci? Capisci cosa intendo, vero? Perchè, maledetto te, io sono ancora innamorato di quello stronzo che è andato a letto con la sua insegnante di lettere alle medie!”
“Stai con Yuri, pur pensando sempre a me? E questa non sarebbe ipocrisìa?”
“Sta’ zitto o ti strozzo!” replicò lui, mentre mi stringeva le mani attorno al collo.
Cercai di invano di liberarmi, ma non mollava. Poi, allentò la presa. Abbassando una mano la fece scivolare tra le mie gambe.
“Non toccarmi!” gridai.
A quelle parole ritirò la mano e si voltò verso il finestrino. Mi chiese scusa. Era impacciato.
“Scendi!” ordinai. “Scendi, tornatene a piedi.”
Paolo obbedì alla mia richiesta. Una volta a terra, si voltò verso di me salutandomi piano.
“Non permetterti mai più di fare una cosa del genere. E poi... io sto con Irene.”
Era chiaro, mentivo, ma volevo che Paolo ci credesse. In realtà io frequentavo sul serio Irene, ma non avevamo più fatto sesso da quella volta. Nè il sesso nè tanto meno l’amore. Niente di niente.
“Andrea, sono un cretino! Ehi, Andrea, ma a cosa stai pensando? Andrea...!” mi richiama Giacomo, riportandomi al presente.
“Ah, scusa, pensavo a quella ragazza di cui di ho detto poco fa” confessai sorridendo tristemente.
“Quella di cui sei ancora innamorato? E come si chiama?”
“P.” risposi vago. Ancora innamorato? Io innamorato di P.?!
“E che nome sarebbe? E’ un abbreviativo?”
“Già, esatto.”
Erano già le quattro del mattino. La notte era ancora stellata.
“E quella Irene?”
Quella Irene, già...
“Dov’è finita Irene?” chiedeva spazientito Yuri.
“L’ho vista andare al bagno...”
Irene stava male da giorni, aveva continuamente la nausea e spesso vomitava.
Andai a cercarla in bagno. Si stava sistemando il trucco davanti allo specchio.
“Come ti senti?”
“Andrea... sono incinta, dovrò dirlo anche agli altri prima o poi.”
“Incinta? E di chi...? Sai chi è il padre almeno?”
“Idiota, certo che lo so. Il padre ha la sua vita, però, e nella sua vita non c’è posto per me. Sono completamente sola...”
“Ti vedi con un uomo allora? Non lo sapevo...”
“Tanto vale che te lo dica. Si tratta di Yuri. E’ l’unico con cui ho rapporti sessuali da un anno a questa parte, non ci sono dubbi che il bambino è suo.”
“Cazzo...”
“Sei dispiaciuto per Paolo, eh? Ma non preoccuparti, non mi metterò tra loro. Yuri non starebbe mai con me, mi ha confidato di star cercando un appartamento dove andare a vivere con Paolo. Io non ho chance. Tra breve dovrò lasciare il gruppo...”
“Abbandonare gli Y.M.I.F.? Sei sicura di volerlo fare?”
“Sono costretta” rispose, prendendo a singhiozzare. Mi gettò le braccia al collo, allora l’abbracciai stringendola forte a me. “Andrea, dimentichiamo di esser nemici per una volta... Io ho bisogno di te, non abbandonarmi!” fu la richiesta disperata di aiuto della ragazza che sempre si era presa gioco di me. Certo che non l’avrei abbandonata a sè stessa. Desideravo però che parlasse con Yuri, che lo mettesse al corrente della situazione, anche se forse questo avrebbe messo in pericolo la felicità di Paolo.
La stringevo tra le braccia, e non so per quale motivo avevo la sensazione di abbracciare P.
Quanto mi sarebbe piaciuto poter stare così con P., senza farmene nessun problema. Invece i problemi c’erano eccome. P. non esisteva per quella che io avevo finito per credere.
P. non era P., cioè non era la ragazza di cui mi ero innamorato. Sì, perchè lei non era sul serio una ragazza! E questo era il problema principale.
Ancora non sapevo che dopo la confessione di Irene di quel giorno, la mia vita sarebbe cambiata notevolmente.
Avevo lasciato il lavoro al Caprice e lavoravo nel bar di mia zia. Irene, senza dare spiegazioni aveva mollato gli Y.M.I.F. e mi dava una mano al bar. Era profondamente cambiata: sia nell’aspetto fisico che nel carattere.
Si era tagliata cortissimi i lunghi capelli e se li era fatti neri. Portava occhiali da vista, al posto delle lenti a contatto, con una spessa montatura azzurra. Insomma, era veramente irriconoscibile! Nessun cliente del bar l’aveva riconosciuta, del resto anch’io stentavo a credere fosse la stessa donna fatale che fino a poco tempo prima suonava le tastiere nel gruppo di Yuri.
Una sera, verso l’ora di chiusura del bar Paolo passò a trovarmi. Non ci vedevamo da sei mesi. Sinceramente trovarmelo davanti non fu assolutamente una bella sorpresa! Sembrava avere ancora lo sguardo accusatorio dell’ultima volta che diceva: “Hai scopato con la Vannini!” Era terribile. Guardò Irene incredulo, ma la riconobbe. Notò anche il suo “pancione” e mi chiese spiegazioni. Io mi limitai a rispondergli che non ero il padre. Tagliai lì.
“Come stai?” mi domandò.
Mi sforzai di sorridergli, come niente fosse ma
Sei mesi. Erano passati sei mesi!
“Sto bene, grazie. Irene e io...”
“Io e Andrea viviamo assieme” spiegò lei, intromettendosi, “lui mi ha gentilmente ospitata in casa sua dal momento che io ho lasciato quella dei miei genitori adottivi... Non volevo essere troppo di peso per loro, oppure... avevo vergogna. Sì, penso che la verità sia questa. Sono scappata, da tutti... dagli Y.M.I.F.... da Yuri... perchè sono una vigliacca e una stupida!”
“Scusa, Andrea, vorrei parlarti in privato. Ci scuseresti Irene, usciamo solo un attimo.”
“Fate pure.”
Quando fummo fuori, Paolo mi disse che lei sembrava totalmente un’altra persona.
“Dimmi, cosa provi per lei?”
“E’ una situazione delicata...”
“Lo so. Ti ho chiesto se l’ami oppure sei solo spinto da uno smodato senso di altruismo...! Di chi è il bambino?”
Ecco la domanda che non volevo sentire. La domanda fatidica. La domanda che
“Perchè non lo chiedi direttamente a lei?”
“Volevo solo vedere se eri in grado di essere sincero con me oppure...”
“Che significa?!”
“Significa che io conosco già la risposta... Ora puoi sfottermi a dovere! Avanti, divertiti a ridere dell’idiota. Io sapevo che loro...”
“Se le cose stanno così sei veramente un idiota... Sei peggio di me!”
“Eh, no” scherzò lui, “per esser peggiori di te occorre veramente studiarci a fondo!”
“Perchè sei venuto al bar? Mi serbi ancora rancore per via della storia della Vannini, non è vero?” sorrisi, amaramente. Trovavo il coraggio di guardarlo negli occhi e mi sembrava incredibile.
“Un po’...” sostenne Paolo. “Sono qui perchè avevo bisogno della tua comprensione, avevo bisogno di un amico... del mio migliore amico.” E sottolineò “migliore”.
“Ho detto a mio padre di Yuri... Sono un po’ confuso. Penso d’aver fatto male... l’amore che sento per lui, e anche per te, è sbagliato lo so...”
“Lo sai...?”
“Vorresti andare con P. a pattinare a Bologna questa domenica?”
Spalancai gli occhi per la sorpresa. Con P.?! Ma parlava sul serio?
E così quella volta rividi P., per l’ultima volta. Rividi la mia migliore amica, e la ragazza che mi piaceva un tempo.
“Ehi, sogni ad occhi aperti?” mi chiede Giacomo, divertito.
“Sono stanco, se non ti dispiace...”
Giacomo comprende ed esce dalla mia stanza. Guardo quella squallida camera. La scrivania, il computer, i vestiti buttati disordinatamente sul letto. Mi sento così tremendamente solo.
Ho una stramaledetta voglia di vedere Paolo. Ultimamente faccio spesso sogni su di lui.
Non l’avevo ancora rivissuto con i ricordi il mio ultimo periodo felice con Paolo. Era stato prima della mia confessione sulla Vannini, prima che Irene rimanesse incinta, quando ancora lavoravo al Caprice...
“Mio padre mi ha sbattuto fuori di casa, nel vero senso della parola. Mi ha scaraventato giù dalle scale. Fortuna, non mi sono fatto niente... Ho solo urtato una spalla finendo sul pianerottolo.”
“Sicuro di non esserti rotto o slogato niente?” chiesi preoccupato.
“No, tranquillo. Mi sento decisamente più sollevato, adesso. Non m’importa di ciò che pensa mio padre, al diavolo!”
“Sì, ma dove andrai adesso?”
“Pensavo che magari tu avresti potuto aiutarmi, vivi da solo in un appartamento abbastanza grande...”
“No, non se ne parla... Peggiorerebbe la situazione tra noi. E adesso che i tuoi sono a conoscienza della tua omosessualità... cosa penserebbero di me?! Mi dispiace ma non me la sento.”
“Mi cerco un lavoretto part time e ti pago regolarmente l’affitto. Ho bisogno del favore di un amico, almeno fino a quando io e Yuri non ci trasferiremo insieme in un’altra casa. Il suo palazzo è sempre preso d’assedio dalle sue fans, non posso comprometterlo facendomi vedere là con lui.”
“Ascolta...”
“Che idiota! Aver creduto che tu...” rise di sè stesso. Mi voltò le spalle e fece per andarsene.
“Ma dove vai? Prendi la tua roba, dai, prima che ci ripensi.”
Come potevo abbandonarlo nel momento più difficile che avesse mai attraversato? Aveva trovato il coraggio per dire la verità a suo padre, dovevo essere fiero di lui.
“Scusami, Paolo. Sono un pessimo amico, davvero.”
“Sì,” scherzò lui, “il peggiore egoista che abbia mai conosciuto!”
Da quel giorno iniziò un breve periodo di convivenza in cui per la prima volta aprii gli occhi su tante cose che mi ero sempre rifiutato di vedere.
Paolo mi trascinò dentro il suo mondo. Mi presentò i suoi amici, quasi tutti clienti del disco pub dove lavoravo. All’inizio mi sentivo a disagio tra loro, ma poco a poco riuscii ad inserirmi nel gruppo.
Spesso cenavamo tutti insieme in un ristorante a poche centinaia di metri dal Caprice. Mentre mangiavamo scorgevo le cameriere vicino alla cucina ridere tra loro ammiccando con la testa al nostro tavolo. Ridevano di noi. Avevano certo fiutato che si trattava di un bel gruppetto di finocchi e ci sfottevano alla grande. Quel comportamento mi dava ai nervi. Ma
che diavolo volevano da noi quelle stupide galline maleducate?! Io non ero gay, ma essendo in loro compagnia ero anch’io considerato tale. Tuttavia a questo non davo troppa importanza, non adesso, la cosa che più mi mandava in bestia era quell’aria strafottente con cui ci guardavano. I loro sguardi offensivi su di noi. Quasi avessero l’indice puntato contro di noi e ci accusassero: “Froci! Froci! Froci!”
Tornando a casa non potevo evitare di pensare a chi ci aveva deriso per tutta la cena.
“Quelle stupide cameriere... hai visto?”
“Ho imparato a non vedere... Esistono ancora i pregiudizi e sembra che i gay suscitino l’ilarità di molta gente.”
“Ma come puoi sopportare?”
“Ad esser sincero non è facile, ma io cerco di tirare avanti per la strada che ho scelto di percorrere. Non sono solo, e questo mi dà fiducia.”
Il suo mondo. Eccolo là il suo mondo! Un mondo che si scontra continuamente contro un mondo cieco ed egoista. Un mondo che lotta per sopravvivere alla meschinità, ai soprusi, alla crudeltà di quel mondo che si autoproclama perbenista, sputa sentenze, e ci giudica continuamente.
“Con quale diritto ci disprezzano, ci umiliano, ridono di noi?”
Ieri era il mio ventottesimo compleanno. Non l’ho detto ai miei coinquilini. Neppure a Giacomo, sebbene ieri notte abbiamo parlato entrando un po’ in confidenza.
Mi sono svegliato molto presto, non riuscivo a prender sonno. Ho dormito solo un paio d’ore.
Ho stampato tutto il racconto, dopodichè sono uscito nell’aria frizzante del primo mattino. Tenevo il mio manoscritto tra le mani. Ho preso l’autobus che porta fino a Via Stalingrado. Sono sceso. Ho attraversato la piazza e mi sono diretto verso uno di quei bruttissimi palazzi in cemento armato. Ero deciso a lasciare il racconto nella buca delle lettere, al numero 4 interno b. Ho suonato un campanello a caso, dicendo “pubblicità in cassetta”, e sono entrato nell’atrio della palazzina. Ho letto il cognome di Yuri sopra una delle cassette in legno...
“Andrò a vivere con Yu al più presto, così potrai tornare a vivere la tua vita tranquilla senza più avermi in giro per casa. Stiamo cercando un appartamento più grande di quello dove lui vive attualmente. E poi casa sua è sempre assediata dalle ragazzine, lo sai no...”
Sì, ma era necessario che veniste fino a Bologna per vivere in pace? Mentre mi chiedo questo avvicino il manoscritto alla cassetta della posta, poi un ripensamento. Un improvviso ripensamento!
Esco in fretta dal palazzo e getto il racconto nel primo cassonetto che incontro. Cammino fino al Palanord, che adesso è completamente deserto. Qua e là rimasugli dell’ultimo concerto estivo tenutosi lì. Cammino tra cumuli d’immondizia. Più avanti, ad un centinaio di metri da me, sta passeggiando una figura con un cane.
“Ehi, Dylan, vieni qua!” richiama l’animale, l’uomo, che si stava allontanando. Credo di riconoscere la voce e poi... quel nome...
L’uomo fa dietro front ed io prontamente mi nascondo dietro gli alberi. Quando la figura mi passa vicino, mi accorgo che non si tratta di Paolo...
Quel ragazzo è Yuri!
Vorrei chiamarlo, uscire allo scoperto, ma non avrebbe senso. Non avrebbe alcun senso.
Che ci faccio qui? Ecco che di nuovo commetto stupidaggini, non crescerò mai!
Me ne torno a casa e trovo Giacomo sulla porta della mia stanza.
“Ti ero venuto a cercare perchè volevo ringraziarti per ieri notte... Ma dove te ne sei andato così presto?”
“Non riuscivo a dormire...”
“Ho fatto il caffè, vieni che lo prendiamo di là nella mia stanza” m’invita lui.
Sulla scrivania di camera sua scorgo un cd degli Y.M.I.F. e lui che si accorge che sto guardando quell’album mi chiede se mi piacciono.
Ho in testa l’immagine di Yuri a spasso col cane. Quasi mi è impossibile pensare che quello sia il carismatico leader degli Y.M.I.F.
“Sì, mi piacciono...”
“Io sono un loro grandissimo ammiratore, soprattutto di Irene... I tempi in cui c’era lei nella band per me sono memorabili... e chi se la scorda una così! Stavo sempre sotto al palco!”
Quant’è piccolo il mondo, verrebbe da pensare. E così Giacomo non è altro che uno di quei cani ululanti che sbavavano alla vista delle mutandine di Irene.
“Tu sai che fine ha fatto?”
“Voci di corridoio la davano sposata e con prole...” scherza il ragazzo. “Comunque rispetto la sua decisione di voler vivere una vita normale. Ah, Irene... la donna dell’immaginario erotico di tutti noi fans! Tu cosa ne pensi?”
“Era solo una troietta che si divertiva a stuzzicare i suoi fans... L’odiavo! E comunque sembra che stesse con Yuri...”
“Lo penso anch’io.”
“Quello è il nuovo album?”
“Sì, se vuoi te lo presto.”
“O.k, grazie! Anch’io seguivo i loro concerti abbastanza assiduamente. Sono venuto a vederli anche qua a Bologna... Anch’io stavo sotto al palco...”
“Senti, ma quella tua Irene, invece, com’era?”
“Una gran stronza... Abbiamo abitato nello stesso appartamento per più di un anno, fino a due anni fa, poi una bella mattina tornando dal lavoro la trovo tutta intenta a preparare le valige. Mi dice che ha ricevuto la telefonata di un amico, un certo Simone, mai sentito nominare prima di allora, che la invitava a trasferirsi da lui...”
“Stento a crederci, non dirmi che lei...”
“Esatto, se n’è andata come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ha detto si sarebbe fatta sentire nei giorni successivi, be’ sto ancora aspettando...”
“Ma scusa tre giorni fa ti ha chiamato sul cellulare, l’avevi dimenticato a casa ed ho risposto io, mi era passato di mente ma poi te l’ho riferito, no?”
“Giacomo, son passati due anni! Ma che cazzo vuole da me?! Non ti sembra assurdo! Quando ho provato a chiamarla non era mai raggiungibile... sicuramente ha cambiato numero! E
pensare che io le avevo anche dato quello mio nuovo che non ho dato neanche a mia madre!”
“Controlla sul cellulare, no? Il numero sarà rimasto in memoria...!”
“Lo trova divertente. Io non ho voglia di giocare con quella matta!” grido, tirando fuori il telefonino dalla tasca dei pantaloni. Apro la finestra e lo scaravento giù in strada. Sono furioso. Basta! Fine del gioco!
“Dove sei stato stamattina?”
“Credevo d’aver ancora qualcosa da dire ad una persona. Qualcosa che non ero riuscito a dirgli tre anni fa, ma mi sbagliavo.”
La mia P. non c’era più ed io ero un ragazzo normale. Non avevo più niente da dire a Paolo. Più niente. Meglio lasciar tutto in sospeso. Meglio lasciar tutto come quella sera.
Perchè sono venuto a vivere a Bologna? Perchè proprio a Bologna? Perchè?
Spero non ti aspettassi di veder arrivare P. con la sua sexy mini gonna...!” esordì scherzando Paolo dopo avermi raggiunto sul luogo dell’appuntamento, davanti al Castello Estense.
Io però non risi, se quella era una battuta, e con tono piuttosto serio gli risposi che era lui che voleva salutare prima della sua partenza e non P. L’unica cosa che gli dispiaceva era averla fatta stare tanto male quando si frequentavano.
“Non darti troppa pena per lei. Ha trovato qualcuno che l’ama davvero, o almeno io è così che spero. Per quanto riguarda me spero di aver fatto la scelta giusta con la persona che amo. E questo è quanto”, sorrise, “ fine del gioco.”
Il ragazzino dall’aria tanto indifesa in realtà era sempre stato dotato di una personalità molto forte. Quel timido sguardo da bambina nascondeva un carattere davvero deciso. Una determinazione tale che talvolta quasi mi spaventava e che gli avevo invidiato in più di un’occasione. Adesso se ne andava a Bologna con la persona che amava, che aveva deciso di amare come sè stesso e non sotto le false sembianze di una ragazza. Andava a vivere con qualcuno che l’accettava per quel che era. Dopotutto, io non mi era innamorato di Paolo ma di P., la sua versione femminile, e alla fine la mia coscienza aveva preso per considerarli due persone ben distinte. Il tutto perchè rifiutavo l’idea di provare sentimenti che andavano contro natura.
“Questo è il nostro indirizzo. Vieni quando vuoi, ci farà piacere” mi disse porgendomi un foglietto piegato in due. Quel parlare al plurale mi aveva un po’ turbato. Allungai la mano per prendere il bigliettino, ma me lo feci scivolare dalle dita. Entrambi ci chinammo per raccoglierlo e le nostre mani si toccarono. Fui colto da un incredibile imbarazzo e non potei non sentirmi un vero idiota. Tentavo di nascondere la vergogna provata a causa di quel contatto con la mano dell’amico, ma il rossore sul viso mi tradiva. Per qualche attimo fummo i due ragazzini che eravamo stati ai tempi delle medie. Ci fissavamo senza dire niente. Era uno spettacolo da voltastomaco nella mia testa che non riusciva a controllare le sue emozioni. Ero pietrificato. Paolo mi si avvicinò con la faccia. Io ancora non riusciva a muovermi. Se solo si fosse aperta una voragine sul suolo e fossi stato inghiottito al suo interno. Se solo non fossi stato un demente cronico, dannazione!
“So a cosa stai pensando” rise Paolo cercando di smorzare la tensione che si era creata, “stai pensando qualcosa come se ci diamo solo un bacio potrò esser considerato comunque un omosessuale? Oh, è un grande interrogativo...” continuava a ridere, ma non con cattiveria.
“Io non...”
“Secondo me il solo fatto che tu faccia un pensiero del genere significa che hai degli istinti omosessuali repressi, caro mio!” constatava, con tono divertito il ragazzo.
“Cosa nei sai di quel che penso, scemo! Non hai il diritto di prenderti gioco di me così!”
“Be’, lasciamo stare. Scusa se non posso trattenermi oltre, ma ci sono ancora alcune cose che devo sbrigare prima di partire. Si sta facendo tardi. Ti saluto, Andrea... Ah, senza rancori?”
Io annuii con la testa.
“Mi fa piacere. Allora, ciao, stammi bene!” Lo disse con quel suo sorriso così dolce, il sorriso che mi piaceva tanto di P. Quel sorriso che tanto aveva turbato i miei pensieri. Quel sorriso così disarmante che ogni volta mi spiazzava e annullava la mia sana razionalità. Quel sorriso che adesso mi diceva addio.
“In bocca al lupo... per tutto!” augurai al mio carissimo amico.
“Crepi! ... E che crepi assieme a tutti i pregiudizi della gente!”
“Assieme a tutti i pregiudizi...!”